Lanciare il sasso è facile, nascondere la mano molto più difficile. La Nato lo sa e il confuso vertice con cui i 28 ambasciatori riuniti ieri a Bruxelles decidono la graduale conclusione delloperazione Protezione Unificata iniziata lo scorso 31 marzo ne è la prova. La Nato è ben consapevole di aver superato ogni limite. Sa che la copertura offerta dalla risoluzione 1973 dellOnu è scaduta da almeno due mesi. Lintercettazione delle comunicazioni di Gheddafi e dei suoi luogotenenti intrappolati nel quartiere 2 di Sirte, lintervento dellaereo senza pilota statunitense mandato a inseguire i 75 fuoristrada sbucati dagli edifici, lincursione del Mirage francese arrivato ad intercettare i dieci mezzi dellentourage del raìs non hanno alcuna legittimità politica, diplomatica o giuridica. La risoluzione di fatto non vale più sin dal 23 agosto quando la caduta di Tripoli sancisce la fine del regime e di qualsiasi minaccia per i civili anti-gheddafiani. Le operazioni susseguitesi giovedì sono, però, due volte illegittime perché la colonna di Gheddafi in fuga, pur ammettendo una residua efficacia della risoluzione, non rappresenta un pericolo. A farlo notare, mentre a Bruxelles si apre il vertice, ci pensa il ministro degli esteri russo Serghei Lavrov: «Il convoglio di Muammar Gheddafi ricorda Lavrov - non minacciava nessuno quando è stato attaccato dalla Nato. Perché lo avete fatto?». Il quesito mette lAlleanza con le spalle al muro. Dichiarare limmediata fine delle ostilità, come chiede Parigi, equivale ad ammettere con indifferente cinismo che i veri obbiettivi dellintervento erano labbattimento e leliminazione del raìs. Proseguire brevemente le operazioni, tanto per dimostrare di non averne atteso luccisione, come propongono gli inglesi, è ancora più pericoloso. Continuando lintervento mentre allOnu si moltiplicano le richieste di unindagine sulluccisione del Colonnello si rischia, infatti, di rendere più eclatante lassenza di copertura diplomatico-giuridica. E così ecco lo scontro tra Parigi e Londra.
«L'operazione militare della Nato è conclusa, l'insieme del territorio libico è sotto il controllo del Cnt», afferma il ministro degli Esteri Alain Juppé. La linea coincide con quella del governo italiano, visto che già giovedì il premier Berlusconi e il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, parlano di fine della guerra vicina. Il ministro della Difesa britannico Philip Hammond sostiene al contrario la necessità di «terminare le operazioni solo quando i civili saranno al sicuro». E anche il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, si schiera per una conclusione graduale «coordinata con l'Onu e il Cnt».
Il risultato è un compromesso, una breve appendice di missione durante la quale verificare lassenza di rischi per i civili e garantire un regolare processo di democratizzazione. Ovviamente è la ciliegina sulla torta dellipocrisia. Tutti sanno che la democrazia in Libia è unutopia pronta a venir cancellata dalla guerra civile, dal fondamentalismo e dalle interferenze esterne. Il primo a saperlo è il presidente del Consiglio di Transizione Mustafa Abdel Jalil. Lui non a caso sceglie Bengasi e non Tripoli come sede per l'annuncio della liberazione della Libia prevista per domani. La piazza di Tripoli è, infatti, proprietà privata di Abdel Hakim Belhaj, il capo del Consiglio Militare di Tripoli legato a doppio filo al Qatar considerato lindiscusso comandante delle milizie islamiste dei Fratelli Musulmani. Il suo pedigree non mente. Negli anni Ottanta combatte in Afghanistan dove conosce Osama Bin Laden e Al Zawahiri. Negli anni Novanta guida le milizie qaidiste del Fronte Libico. Nel 2004 si ritrova in galera in Libia dopo esser fuggito allestero ed esser stato riconsegnato a Gheddafi dai servizi segreti inglesi. Rimesso in libertà nel 2010 grazie alle trattative tra il figlio del raìs Saif Al Islam e Ali al-Sallabi, il predicatore dei fratelli musulmani libici, Abdel Hakim Belhaj diventa luomo di fiducia del Qatar. Sono proprio le armi e i consiglieri militari messigli a disposizione dallemirato a consentirgli di conquistare Tripoli e cacciarne il raìs. Da allora la capitale è proprietà sua e del generale Hamad Ben Ali al-Attiyah, il capo di stato maggiore del Qatar che non disdegna di comparire al suo fianco. Lì gli uomini del Consiglio Nazionale libico di Bengasi non hanno né autorità né diritto di parola.
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