RomaOvviamente l’incontro è andato «benissimo». Così bene che i due hanno persino steso un «comunicato congiunto», come se fosse il faccia a faccia tra capi di Stato, un summit fra due superpotenze. C’è qualcosa di irraccontabile nell’ennesimo capitolo della telenovela fra Massimo D’Alema e Walter Veltroni. Come in quel film - Ricomincio da capo - in cui Bill Murray si risveglia tutte le mattine nella stessa città, stessa ora, stessa canzonetta alla radio, imprigionato in un incantesimo che lo vede costretto a ripetersi.
C’è qualcosa che ricorda la commedia. Ma anche qualcosa che ha un sapore arcaico: la terza guerra punica veltrodalemiana, quella per il controllo del Pd. È noto: sempre Veltroni e D’Alema smentiscono ogni dissapore. Duellano senza tregua, e mai riescono a mettere in campo, alla luce del sole, una dialettica chiara, intellegibile ai comuni mortali, simile a quella di tutti i partiti socialdemocratici che amano citare. Persino lo scontro rusticano e fratricida fra Tony Blair e Gordon Brown - paragonato a quello fra i due dioscuri del postcomunismo italiano - pare una sfida cavalleresca, all’acqua di rose. Questa estate un giorno, Veltroni mi gridò contro, scocciato: «Voi giornalisti volete a tutti i costi raffigurarci come due duellanti, due Highlander!». Forse attribuiva a me, quello di cui non riesce a prendere atto lui. Eravamo a un a conferenza stampa in cui lui presentava la sua Youdem tv, varata in fretta e furia contro la Red tv dalemiana (!).
Ieri l’ennesimo dettaglio surreale: dopo l’incontro lampo con Veltroni,diffusi i messaggi di concordia, D’Alema corre a Napoli, a prendere un caffè in pubblico. E indovinate con chi? Con il più aggressivo dei ribelli anti-veltroniani: Antonio Bassolino. In quel mentre Veltroni era riunito con il segretario campano per capire come farlo dimettere. Meraviglioso. Davvero un segnale di consonanza. Ma per raccontarla, questa storia, bisogna avvolgere la bobina, fino alla fine del 1977, quando Veltroni viene di fatto «segato» nella Fgci di cui D’Alema diventa segretario. È il primo momento di differenziazione fra i due. Veltroni è più giovane, ma già fautore di una linea diversa, meno identitaria, più eclettica. Veltroni a Roma dialoga con Pasolini, D’Alema è il giovane funzionario (e figlio d’arte) che il partito mette alla testa dell’organizzazione per sostenere l’urto pauroso del 1977 su una linea ortodossa e antigruppettara. Se si salta un decennio, li si ritrova di nuovo in competizione. Veltroni è uno degli uomini più vicini ad Achille Occhetto, D’Alema è già il suo competitore.
Oggi Occhetto dice: «Contro Walter oggi c’è in atto lo stesso lavorio fatto contro di me. La stessa diarchia». Infatti, dopo aver marciato uniti sul cambio del nome, D’Alema e Occhetto si divisero. D’Alema è direttore de l’Unità nel 1989, Veltroni lo sarà nel 1992. Persino lì fu duello (a distanza): «Le cassette le ho inventate io - disse memorabile il primo - con le musicassette. Vendevo il doppio di Walter!».
Quando poi, dopo la sconfitta delle Europee del 1994 «il deputato di Gallipoli», andò da Occhetto a chiedergli di mollare, dicendogli che era «una obsolescenza», quello reagì candidando l’unico che poteva batterlo: Veltroni. Veltroni vinse la consultazione-referendaria fra i dirigenti, ma D’Alema fu eletto nel consiglio nazionale. Il suo luogotenente di allora, Claudio Velardi disse: «Era una conta taroccata». Veltroni all’epoca si mise in riga, accettando poi di correre come vice di Prodi, nel 1996. Quando Prodi fu silurato, nel ’98, D’Alema lo sostituì. I veltroniani dissero peste e corna del nuovo premier, ma Veltroni accettò di prendere il suo posto a Botteghe Oscure, insediato con un altro voto unanime e con uno scappellotto di D’Alema, (simbolo eloquente di un patto tra nemici). In tempi più recenti toccò a D’Alema mandare già un boccone amaro.
Aveva fatto appena in tempo a dire, a Massimo Giannini: «Veltroni premier? Non finché sono in vita io», che si era dovuto rimangiare la smargiassata. Anzi. Era stato lui a ratificare la discesa in campo di Veltroni per le primarie, e la povera Finocchiaro (dalemiana in pista) costretta a ritirarsi e a baciare la pantofola al sindaco. Al congresso di Firenze Veltroni e D’Alema si erano sfidati: al congresso del Lingotto D’Alema aveva lanciato una delle sue sentenze memorabili: «Quando sarà il momento farò un passo indietro e ce ne andremo tutti a casa». Deliziosa variatio di soggetto. Ancora oggi il líder Maximo vorrebbe dettare i tempi e le scelte. È quasi banale osservare che i due sono legati come due facce della stessa medaglia. Tanto impegnati a dissimulare odio e diversità antropologica (che, se esplicitati, dopo aver affondato i Ds terremoterebbero il Pd) da convincersi persino di essere «amici».
Questo mito è alimentato da un biografia parallela meravigliosamente falsa, come le biografie dei bolscevichi riscritte dopo le purghe: ci sono foto di Veltroni e D’Alema dal Papa, nel 1991, con i bimbi sulle spalle; aneddoti di lessico familiare: «Zio Walter» e «Zio Massimo».
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