I cristiani costretti a vivere nelle catacombe dell’Irak

Viaggio nella Mosul del coraggio, dove i cristiani sono circondati da nemici, minacciati ogni giorno, odiati dai terroristi. Ma non mollano: "Dobbiamo dare l’esempio"

I cristiani costretti a vivere nelle catacombe dell’Irak

Mosul (Irak) - Un grumo di polvere. Una gruviera di cemento e lamiere. Un rudere senza più né forma, né senso. Appena oltre l’asfalto ricamato da fasci di reticolati, sorvegliato da kalashnikov spianati, guardato da garitte fitte di poliziotti, mitra e occhi sgranati. Troppo poco. O troppo tardi. Monsignor Amel Nona alza il dito, indica la rovine informi: «Era la caserma del colonnello Shamel Ahmed Ugla, era il poliziotto più coraggioso, il nemico numero uno degli estremisti musulmani. A Natale hanno ucciso anche lui. Sono arrivati in tre con le cinture esplosive. Uno è entrato nel suo ufficio, lo ha salutato, si è fatto esplodere davanti alla sua scrivania. Immagina cosa posson far di noi». Lui lo sa bene. L’altra sera, alla vigilia dell’Epifania, han trovato due giubbotti esplosivi e sette ordigni. Erano pronti, eran tutt’attorno alla sua chiesa, attorno alla cattedrale di San Paolo. Volevano un’altra strage, un altro mattatoio di cristiani. Come a Bagdad il 31 ottobre. Come ad Alessandria d’Egitto a Capodanno. Lui sull’altare c’è andato lo stesso. Come a Natale, quando minacce e paura dovevan svuotare le chiese e i fedeli arrivarono in più di cento: «Eroi della fede» sussurra ora ricordando quella sera.

Difficile dargli torto, ma ancor di più reggere il suo coraggio. Il coraggio di chi vive ogni giorno l’eredità di Monsignor Paul Raho, il vescovo martire rapito dai fondamentalisti nel 2008 e ritrovato cadavere dopo due settimane di prigionia. Il coraggio di chi continua a guidare la Chiesa in una Mosul dove l’integralismo vorrebbe abbattere la croce, sterminarne i fedeli, distruggerne le chiese. Il vescovo rimugina in silenzio mentre la Bmw si fa largo tra i posti di blocco e le processioni di auto incolonnate in una città epicentro della nuova persecuzione. L’autista si guarda attorno. Attento ad ogni sguardo. Pronto ad ogni evenienza. Monsignor Nona ripensa ai suoi eroi: «Non potevo deluderli. Qui la fede è testimonianza. Qui la fede è presenza. Qui noi cristiani viviamo di nuovo nelle catacombe. Qui sfidare la paura, metter fuori la testa significa dare l’esempio, impedire l’esodo, fermare la fuga che ci assottiglia».

Monsignor Nona torna a far i conti con il suo incubo, con l’emorragia silenziosa che dal 31 ottobre s’è portata via altre 200 famiglie. Altri mille cristiani, forse più, fuggiti verso l’esilio senza ritorno. D’un tratto si scuote: «Quando scendi non aprire bocca, non dire una parola. Segui me e le suore, il convento è qui attorno e qui è ancora più pericoloso». Il minareto pendente simbolo di Mosul segna la fine di traffico e boulevard. Ora la città s’avvita in un budello di creta e mattoni, s’arrampica in un dedalo di viottoli antichi, si dipana in un labirinto angusto, senza occhi e senza legge.

Suor Etor Yousef e lì ad aspettarci. Un’occhiata muta al vescovo, un sorriso d’avvertimento per l’ospite straniero e la fila indiana si muove. Suor Etor cammina spedita tra i sorrisi dei mocciosi musulmani, i saluti delle madri velate, le mani alzate dei mercanti rintanati nei bugigattoli stracolmi di merci e cibo. Duecento metri più su la porta del convento. Una lastra d’acciaio tra la vecchia Mosul e quella assai più antica della fede cristiana portata dall’apostolo Tommaso. Un’esile barriera tra un l’universo d’odio della grande città e il piccolo mondo di speranza vissuto da tre suore e 25 ragazze. Sono l’altra Mosul. Sono uno scampolo di una fede che disperatamente resiste e sopravvive. Alla persecuzione. Alle bombe. E al proprio fondatore. «L’idea venne a Monsignor Paulos Farai Rakho noi l’abbiamo solo portata avanti» minimizza Suor Etor. E chi le crede. Certo vent’anni fa fu Paulos Farai Rakho, il vescovo martire, a trasformare questo convento antico in un orfanotrofio per ragazze cristiane. Ma se l’idea è sopravvissuta alle bombe e alle minacce lo si deve solo a Madre Coraggio. Una suora che in sette anni non ha mai mollato, non ha lasciato un solo giorno le sue orfanelle. Se le chiedi dell’autobomba studiata per trasformare anche questo convento in un rudere senz’anima - come la vecchia curia colpita e distrutta due anni fa - lei ti guarda e sorride: «Sono regali che ci fanno, ma noi non ce ne curiamo... nei momenti difficili spegniamo la televisione, non ascoltiamo le notizie, facciamo come se non ci fossero. É la nostra forza e la loro debolezza».

Non sempre è facile. Soprattutto se sei cristiana, se sei cresciuta in questo convento e come la 25enne Saussan Michail Georgi vai all’Università a capo scoperto, sfidi il silenzio di mille veli e di un mondo che ti guarda come un’intrusa. Un mondo dove il nemico diffonde ogni giorno i suoi proclami. L’ultimo Saussan e gli studenti cristiani se lo son visti recapitare prima di Natale. Pagine di proclami, minacce, citazioni del Corano per invitarli a convertirsi o a tremare, ad andarsene o a morire: «Se hai fede di Ansar Islam non ti può far paura, se credi sai che non ti puoi piegare» ripete Saussan con lo stesso sorriso regalato da tutti i volti di questo convento. Lo stesso sorriso con cui Suor Etor si presenta, ogni tanto, nelle moschee dei dintorni, chiede degli Imam, espone le proprie ragioni: «Volete che le mie ragazze si vestano come le vostre, volete che si nascondano sotto il velo, volete che io vi regali delle nuove musulmane? Beh scordatevelo, non pensateci nemmeno perchè se siamo differenti è perchè noi siamo cristiani e voi musulman». E l’orgoglio di chi resta.

La voce di chi non molla. La tempre di chi crede.

E a dar retta a Monsignor Nona l’unica ricetta, l’unica testimonianza di vita capace di salvare gli ultimi cristiani. «Per gli estremisti, per i terroristi musulmani la cosa importante è saper morire. Per noi è sapere vivere. Per questo alla fine saremo i più forti. Più forti delle loro bombe. Più coriacei dei loro kamikaze».

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