I fantasmi di Palazzo Chigi

Non lasciatevi ingannare: quelle di domenica scorsa non sono state elezioni locali. L’esito del voto supera i confini di Verona, Monza, Alessandria, Asti e Civitavecchia. Dalle urne esce una bocciatura netta del governo di centrosinistra, un invito secco a Prodi affinché faccia le valigie. La maggioranza per negare la sconfitta si aggrappa al risultato di Agrigento. Ma in Sicilia le urne hanno premiato un ex segretario dell’Udc candidatosi sotto le bandiere uliviste, regalando il Consiglio comunale al centrodestra, con una maggioranza del 70 per cento. Che ad Agrigento non abbia vinto il centrosinistra lo ha detto il neosindaco. Con un «nessuno può mettere il cappello su questa vittoria», ha spento i facili entusiasmi. Fatta eccezione per L’Aquila, la sinistra non è riuscita a strappare nulla, ma anzi ha perso terreno un po’ ovunque, in maniera devastante al Nord.
Ciò che stupisce è soprattutto la sconfitta di sindaci uscenti. Chi conosce i flussi elettorali e studia le tendenze del voto è da sempre convinto che in un’elezione amministrativa pesi di più il candidato del partito e contino poco le questioni nazionali. Un sindaco che si ripresenta per il secondo mandato in genere è avvantaggiato, perché può mostrare ai cittadini ciò che ha fatto. È sempre andata così: a Roma, a Torino, a Genova, a Milano. Fatto salvo il caso particolarissimo di Bologna, nessun primo cittadino uscente è mai stato sconfitto quando ha chiesto nuovamente fiducia ai suoi elettori. In questa tornata il voto ha invece spazzato via sindaci ai loro primi cinque anni di mandato con una furia che è raro vedere. Il centrodestra conquista molti centri con percentuali che sfiorano, e a volte superano, il 60%, lasciando ai sindaci uscenti percentuali più vicine al 30 che al 40%. A Verona, Monza, Alessandria, Asti, Civitavecchia non c’è stata partita. Ed è difficile immaginare che la colpa sia dell’amministrazione locale che non ha mantenuto le promesse e ha scontentato gli elettori. Anche perché tutto ciò si accompagna a un generale arretramento del centrosinistra. A Genova, città da sempre rossa, il neosindaco Marta Vincenzi ha ottenuto poco più del 51% e il candidato di centrodestra Enrico Musso ha superato il 45. In provincia è andata anche peggio: sommando i voti del capoluogo e del Tigullio, il centrosinistra s’è fermato poco sopra il 48, mentre la candidata del centrodestra è arrivata al 46,7 e si decide al ballottaggio. Passi indietro si segnalano anche a Piacenza, Feltre, Marsala, Gorizia; perfino a Sesto San Giovanni, ex centro siderurgico alle porte di Milano soprannominato «la Stalingrado d’Italia».
La sconfitta della sinistra non può essere dunque appiccicata solo sulle spalle dei sindaci di sinistra. È la sconfitta del governo, di un’Unione che non fa la forza. La débâcle repentina e inesorabile di un progetto politico di cui si discute da mesi o da anni, ma che non è nient’altro che una scatola vuota, un contenitore privo di contenuti. Il Partito democratico (e con lui il suo ideatore Romano Prodi) viene travolto soprattutto nelle città settentrionali, in quel Nord industrializzato che vorrebbe rappresentare con un organizzatore di sagre culinarie, Carlin Petrini, e con l’Infedele Gad Lerner. Mai come in queste ore è palpabile la distanza siderale tra la sinistra e il cuore produttivo del Paese. Mai come ora il Pd appare per quel che è: un progetto nato morto.

Sergio Chiamparino, sindaco di Torino con alle spalle una vita da funzionario del Pci, dice che quella di domenica non è una Caporetto, ma uno scricchiolìo preoccupante: «Il punto centrale è che c’è un problema di leadership da parte di chi governa». Per ciò che ci riguarda, il punto centrale è che Palazzo Chigi è infestato da una banda di fantasmi. Una triste compagnia di spettri già sconfitta dai propri atti, come nel caso di Vincenzo Visco. E ora anche dal voto.

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