Non era previsto che un libro per ragazzi fosse ammesso tra i 12 finalisti al Premio Strega, ma l’impossibile è accaduto con il romanzo di Beatrice Masini dal titolo accattivante Bambini nel bosco (Fanucci, pagg. 200, euro 14). Scrittrice pluripremiata, giornalista, editor, traduttrice, la Masini spicca nel panorama editoriale italiano per la sua versatilità narrativa che spazia dalle fiabe alle storie più articolate e complesse rivolte a un pubblico giovanile, nelle quali la realtà quotidiana è sbattuta senza complimenti in primo piano, come nel caso del suo precedente romanzo, sempre edito da Fanucci, Sono tossica di te, dove il tema della droga è affrontato con quella libertà mentale che sempre sottende un solido spessore etico. Ma tornando al libro in questione, qui l’invenzione fantastica prevale, traducendosi nella costruzione di un mondo fuori dal tempo e dallo spazio, dominato dalle macchine e abitato da esseri apparentemente privi di sentimenti. Ma che cos’ha di tanto speciale questo romanzo per attrarre l’attenzione degli adulti? Il superamento dei limiti di fasce di età è da sempre esistito, basti pensare a Defoe con Robinson Crusoe, scritto per i grandi e adottato senza esitazioni dai ragazzi. Nel caso di Beatrice Masini è successo l’inverso: affiora una critica sotterranea ai modelli di organizzazione politica ed economica attuali, ai valori confusi e incerti su cui si regge la nostra società.
Non è un romanzo fantascientifico, né di genere fantasy, e neppure d’avventura: attrae forse l’atmosfera inquietante come sospesa tra il sogno e l’incubo?
«È un libro - risponde l’autrice - che parla dell’infanzia, ma si rivolge anche agli adulti. Come ha detto Tullio De Mauro, non gli manca niente per concorrere al Premio Strega perché in realtà i punti di vista sono due: bambini e adulti, gli uni protagonisti centrali, gli altri più appartati, guardiani poco benevoli in generale, addirittura crudeli, ma due di loro alla fine diventano complici e li salvano adottandoli».
Uno struggente senso di abbandono domina questa favola amara che ci proietta nell’ombra luminosa di una dimensione imprecisabile, dove «il buio ti sembra più buio e i pensieri ti strisciano addosso e ti stringono dita appiccicose attorno alla gola».
«Siamo fin dalle prime pagine in una landa desolata, un luogo strano, abitato da chi è riuscito a fuggire. C’è stata una catastrofe improvvisa e qui sono arrivati tanti bambini, di tutte le età, che non sanno chi sono né da dove vengono. Sono perduti, non hanno genitori e forse alcuni non li hanno mai avuti. In realtà in questa “Base” anonima e minacciosa, di squallore raggelante, non c’è spazio per i legami: la follia sembra aver preso il sopravvento».
Gli adulti nel suo romanzo non fanno una gran figura, non insegnano nulla, anche loro sembrano disorientati, si limitano a tenere i bambini tranquilli con pasticche calmanti e un po’ di cibo. Perché questo giudizio negativo?
«In effetti i bambini sono lasciati a se stessi: è come se fossero dotati di una natura misteriosa, non completamente rivelata. I bambini, così, a poco a poco perdono il linguaggio, perdono la memoria; l’istinto prevale e con esso domina unicamente l’anelito elementare alla sopravvivenza. Finché non compare un libro di fiabe e un bambino che conosce qualcosa di più, che sa leggere, che ha conservato qualche “Coccio”, ossia qualche pezzetto di ricordi e in un certo modo rappresenta per gli altri l’unica salvezza».
I frammenti di pensiero riportano alla vita, fanno brillare gli occhi prima opachi, spenti dei bambini.
«Sì, riaffiorano a sorpresa e poi spariscono di nuovo prima di riuscire ad afferrarli e a tenerli stretti. L’infanzia solo per sbaglio è ritenuta comunemente un periodo gioioso dell’esistenza. In realtà è un mondo a parte e per quasi tutti gli adulti sconosciuto. Ma c’è una minoranza che per fortuna non ha perso ancora ogni il legame con la dimensione originaria, infantile e attraverso i bambini ritrova verità perdute e valori dimenticati».
Lei scrive: «Cocci. Dolore e piacere insieme. Il dolore qui, e il piacere lontano». L’impressione immediata che danno le sue parole è che gli affari umani sono sovente esposti a disastri inevitabili: è da qui che le è nata l’idea di questa lotta disumana tra bambini in balia di se stessi e dell’ignoto?
«Volevo raccontare una storia in cui le parole, i ricordi, la memoria sono cancellati e poi recuperati piano piano, lentamente attraverso le fiabe. Solo allora, quando Tom comincia a leggere, i bambini riescono a comprendere che per salvarsi devono fuggire e seguire lui perché è l’unico in grado di guidarli. Egli non è il più forte, ma possiede i pensieri e così anche Hana, la bambina dura e prepotente che prima li comandava a bacchetta, riconosce attraverso la riflessione la sua superiorità. Insieme giungono a capire che per salvarsi devono fuggire e non c’è altro luogo dove andare che il bosco».
Il bosco è il luogo della paura, degli oscuri recessi, degli orchi, delle «bestie mutanti», il posto proibito. Come possono restare illesi rifugiandosi lì?
«Anzitutto ciò che è vietato attrae per eccellenza il bambino, e poi in questo caso non c’è altro posto dove scappare da un luogo senza memoria e senza speranza.
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