«Chi ha ammazzato il povero Ivan?», titolava un giornale russo dando la notizia della strage di Capaci e della morte di Giovanni (Ivan in russo) Falcone avvenuta il 23 maggio del 1992.«Chi ha ammazzato il povero Ivan» è il verso di una filastrocca popolare russa simile a «Maramao perché sei morto?». Il significato era ironico: tutti avevano capito chi ha ammazzato il povero Ivan. E perché. Giovanni Falcone era molto popolare presso l'opinione pubblica russa ancora stordita dalla fine della dittatura comunista e dell'Unione Sovietica. Lo era diventato ancora di più quando aveva stretto un rapporto di ferro con il procuratore generale russo Valentin Stepankov. «Ivan» era così diventato per i russi non soltanto l'alleato, ma anche il maestro di Stepankov, autore del libro Il viaggio di Falcone a Mosca con Francesco Bigazzi (Mondadori, pagg. 156, euro 20) e già recensito su queste colonne da Dario Fertilio il 28 ottobre scorso.
Il viaggio di Falcone a Mosca non ebbe mai luogo: la strage avvenne poche settimane prima della data concordata. Si realizzava così la cinica massima di Stalin: «Dove c'è uomo, c'è problema. Niente più uomo, niente più problema». Quando fu ucciso, Falcone non aveva più poteri da procuratore, confinato dietro la scrivania di Direttore degli affari penali in via Arenula a Roma.
Francesco Cossiga mi raccontò che l'ambasciatore russo Anatolij Adamiscin era venuto a trovarlo agitatissimo. «Si può sapere a che gioco giocano gli italiani? Perché nessuno interviene?».
Il presidente della Repubblica apprese così da Adamiscin che fra il 1991 e l'inizio del 1992, la Repubblica Russa ex Sovietica era stata dissanguata dall'esportazione del tesoro del Pcus, dei fondi segreti del Kgb e di molti patrimoni occulti della nomenklatura sovietica. «Adamiscin disse Cossiga parlò della più devastante operazione criminale-finanziaria di tutti i tempi». Secondo l'ambasciatore, il tesoro di Mosca era stato fatto affluire in Italia attraverso canali finanziari già usati per il trasferimento di «aiuti ai partiti fratelli» e alle loro aziende.
Cossiga parlò con il presidente del Consiglio Giulio Andreotti, che era allora in corsa per il Quirinale, benché l'assassinio del suo proconsole siciliano Salvo Lima, il 12 marzo di quell'anno, l'avesse ormai azzoppato. Andreotti rispose: «Sì, bisogna fare qualcosa. Ma non sono io la persona adatta: se tiro in ballo il Pcus e il Kgb potrei solo irritare i comunisti, mentre i loro voti mi sono indispensabili. Ho un'idea: chiama Giovanni Falcone e chiedigli di dare una mano con discrezione. Gli fornirò la copertura diplomatica».
Cossiga convocò così il giudice e gli fece la proposta che, se non era indecente, era almeno stravagante, visto che Falcone non aveva più il potere giudiziario di indagare: «Dobbiamo far capire ai russi che prendiamo sul serio il problema. Sono sicuri che dietro il trasferimento di fondi ci siano entità potenti che vanno oltre la vecchia filiera dei finanziamenti del Pcus al Pci». Falcone accettò e si gettò a capofitto nell'inchiesta che aveva a un capolinea Mosca e all'altro Palermo e Roma. Cercò Stepankov, che lo raggiunse a Roma. I due si piacquero molto. Claudio Martelli, che era stato ministro di Grazia e giustizia all'epoca della strage di Capaci, alla presentazione del libro Oro da Mosca di Valerio Riva e Francesco Bigazzi (Mondadori, 1999) - cui parteciparono lo stesso Valentin Stepankov e Giulio Andreotti - rievocò lo stato d'animo di Falcone: «Un giorno venne in ufficio da me. Era molto eccitato perché aveva avuto un'eccellente impressione di Stepankov (un uomo di prim'ordine) e poi per la materia evidentemente incandescente di cui si stava occupando». «Incandescente» è un aggettivo appropriato.
Tre giorni dopo Capaci, il quotidiano russo Izvestia (Notizie, già organo dei soviet dal 1917) pubblicò un articolo subito ripreso dal Corriere della Sera in cui si leggeva che «l'omicidio del magistrato è probabilmente connesso con quel che avviene in Russia, visto che era stato incaricato di coordinare le indagini sul riciclaggio dei fondi del Pcus in Italia, su invito dell'ex presidente Cossiga». Falcone, scriveva Izvestia, «lavorava in coordinazione con la brigata speciale che si occupa della medesima indagine a Mosca sui fondi trafugati dal Pcus e portati all'estero prima del crollo del regime comunista». L'Italia, secondo Izvestia, «faceva parte del ristretto numero di Paesi in cui i soldi del partito e dello Stato sovietico scorrevano a fiumi: solo negli anni Settanta, sei milioni di dollari erano stati trasferiti annualmente dal Politburo come aiuto fraterno. La cosa più probabile è che i soldi del partito e dello Stato fossero pompati nelle strutture occulte italiane. L'Italia non è stata scelta a caso, visti gli investimenti del Partito comunista, le strutture della mafia molto sviluppate, la posizione di forza dei comunisti locali, i solidi contatti stabiliti da tempo: tutto ciò prometteva grandi profitti agli investitori. Già alla fine del 1991 il procuratore generale della Russia, Valentin Stepankov, aveva incontrato Falcone a Roma. E da allora i due si scrivevano costantemente, concordavano incontri di persona e pianificavano azioni comuni dei giudici italiani e russi...». Nello stesso articolo si sostiene che i miliardi trafugati e portati in Italia potessero essere riciclati soprattutto attraverso canali mafiosi. Dirà nel 1999 Stepankov alla presentazione del libro Oro da Mosca: «Ho avuto due incontri con Falcone. Gli ho raccontato dei metodi utilizzati per il trasferimento dei soldi in Italia e lui mi rispose che il presidente della Repubblica gli aveva chiesto di scoprire che fine facevano questi soldi. Quando sono tornato in Russia, lo invitai ufficialmente, ma dopo il telegramma di conferma, abbiamo saputo della sua tragica morte».
La divisione dei compiti fra Stepankov e Falcone era chiara: il primo si occupava di indagare su quel che succedeva alla valuta in uscita e Falcone cercava i punti d'arrivo.Lo shock che investì il Parlamento italiano per la strage di Capaci produsse l'elezione accelerata di un presidente istituzionale, Oscar Luigi Scalfaro. Andreotti si era dimesso e gli era succeduto al governo Giuliano Amato, il quale, partecipando il 28 luglio alla trasmissione di Alberto La Volpe Lezioni di mafia, disse: «Una cosa è certa: Cosa Nostra non è soltanto italiana». E poi: «Non c'è più bisogno di infiltrare il Kgb, che forse infiltrava noi. Dobbiamo usare l'intelligence per avere più occhi ed orecchie dentro la mafia».
Paolo Cirino Pomicino pubblicò nel 2000 il libro Strettamente Riservato (Mondadori) in cui scrisse: «Giovanni Falcone avrebbe dovuto incontrare a Mosca il procuratore Valentin Stepankov, che indagava sull'uscita dalla Russia di somme ingenti di denaro nelle disponibilità del Pcus. Stepankov ha detto che dopo la morte di Falcone, nessuno gli ha mai più chiesto nulla. Come mai Falcone svolgeva indagini non più di sua competenza? Tutte le conoscenze che Falcone aveva sui flussi di denaro sporco passarono allora a Paolo Borsellino che, a sua volta, secondo l'annuncio dato da Scotti e Martelli in tv, avrebbe dovuto assumere la guida della Procura nazionale antimafia. Fu la sua condanna a morte. Due mesi dopo Borsellino saltò in aria alla stessa maniera di Falcone».
Vincenzo Scotti era allora ministro dell'Interno. Il 18 giugno del 1992 (lo riferì la Repubblica) disse ai corrispondenti della stampa estera: «La decisione di uccidere Giovanni Falcone e l'organizzazione dell'attentato non sono stati soltanto opera della mafia siciliana». Il direttore dell'agenzia spagnola Efe, Nemesio Rodriguez, scrisse una lunga nota in cui riferiva che il ministro degli Interni italiano «si è detto convinto che l'assassinio di Falcone va molto al di là dei confini nazionali...». E poi: «La mafia non può essere considerata soltanto un problema italiano. È invece un problema internazionale perché internazionali sono i rapporti di Cosa Nostra, internazionali i suoi interessi e complicità, su scala internazionale le sue operazioni di riciclaggio».
Lo storico Giancarlo Lehner, che è stato per anni mio compagno di banco alla Camera, mi raccontò un retroscena che definire inquietante è poco. Mi disse di aver progettato un libro sulla morte di Falcone e che la notizia era stata pubblicata da un settimanale. Giulio Andreotti gli telefonò: «Mi venga a trovare. Forse posso fornirle dei documenti». Lehner andò nello studio di piazza San Lorenzo in Lucina ed Andreotti gli disse di aver personalmente fornito a Falcone la copertura diplomatica per lavorare con Stepankov e la sua squadra di investigatori sul riciclaggio del tesoro sovietico in Italia: «Al ministero degli Esteri ci sono tutti i dispacci che davano la necessaria copertura diplomatica a Falcone. Posso farglieli avere come prova documentale di quel che cerca». Lehner ringraziò e attese. Ma Andreotti lo chiamò di nuovo nel suo studio: «Se posso darle un consiglio, lasci perdere il suo libro sulla morte di Falcone».Lehner era sbalordito. Andreotti spiegò: «Alla Farnesina, dove non si è mai perso neanche un francobollo, mi hanno detto che i documenti della missione di Falcone non si trovano più. È impossibile. Devo concludere che sono stati eliminati da una entità più forte di noi». Di questa vicenda parlammo insieme un giorno alla Camera Lehner, Andreotti ed io. Andreotti confermò con il suo sorriso enigmatico di chi preferirebbe cambiare discorso.Il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso disse il 27 ottobre 2009, davanti alla Commissione Antimafia: «Resta il sospetto che l'attentato non sia stato opera solo di Cosa nostra».Morto Falcone e ucciso Paolo Borsellino, che aveva ereditato l'inchiesta del suo amico, tutto si fermò. La memoria di quel che era successo fu rapidamente resettata e oggi pochi ricordano questi fatti. Nessuno ha scoperto, o voluto scoprire, a quanto ammontasse il tesoro sovietico arrivato in Italia e che molto probabilmente modificò la storia del nostro Paese. Stepankov ha confermato che l'inchiesta avviata con grande slancio fu abbandonata. Diventò obbligatorio da allora negare che la morte di Falcone e Borsellino fosse probabilmente collegata alla storia del tesoro russo inghiottito in Italia.
Fu così scelta, per dare un senso alle stragi di Capaci e via D'Amelio, eseguite con una regia e con strumenti che non appartengono all'identità della mafia siciliana, la sacra versione semi-teologica di una mafia che si comporta come un anti-Stato e che quindi colpisce i «simboli»
dello Stato, cosa che la mafia non si è mai sognata di fare.Resta dunque aperta la questione: chi ha deciso la morte del povero Ivan e poi di Paolo Borsellino, la cui agenda rossa sparì dalla scena del delitto?Paolo Guzzanti
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