E' il momento più buio per Susanna Camusso. L'interminabile trattativa è giunta a un punto di svolta e il tabù è stato violato. Il governo tira dritto sull'articolo 18 e finisce l'era del diritto di veto della Cgil, almeno pare. Lei, il segretario (e) generale del sindacato, quella che dice sempre no e fa il muso duro, deve raccontare ai giornalisti - e a tutto il Paese - la sua sconfitta. Non perde i toni da barricadera e non ammaina la bandiera dello sciopero, ma la delusione è tangibile e la stanchezza visibile.
E' un momento importante e, per una variabile tragicomica del destino, la quasi Caporetto della Camusso ha un finale cinematografico. All'improvviso - mentre parla dallo stesso microfono da cui ha raccontato la sua vittoria la Fornero - qualcuno la chiama al telefono e partono le note di una canzone. Una canzone di protesta. Una canzone che suonava quando i sindacati erano quello che la Camusso vorrebbe che fossero oggi. E forse pure la società. Ma il mondo ha girato su stesso così tanto da far passare quasi cinquant'anni. Non tutti se ne sono accorti. Non è Fischia il vento ma Soffia nel vento, Blowing in the wind, di Bob Dylan. Siamo le suonerie che abbiamo. E questa le calza come un vestito sartoriale.
C'è la rabbia, la delusione e l'amarezza. Sono anni che quella canzone suona come un presagio nel telefono della "compagna" Camusso. Ma ora la politica ha cambiato musica. E lei si è pure dimenticata di mettere la vibrazione.Twitter: fmdelvigo
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