Dimmi che caffè bevi e ti dirò chi sei (e come lo prepari)

L'espresso al bar? Superato. Vince la macchinetta di casa. Ma è scontro di filosofie tra i cultori dei vari modelli

Dimmi che caffè bevi e ti dirò chi sei (e come lo prepari)

Sì grazie, il caffè non mi rende nervoso. Quel che finisce nella tazzina non è una semplice bevanda, ma nell'universo del consumatore postmoderno, è la spia di un approccio al tempo, al piacere e - volendo esagerare - alla vita. Prendete il tipo Nespresso: non è solo uno che apprezza il caffè con la schiuma, e non vuole perdere minuti preziosi a caricare la moka, ma un esteta che diventa facile preda di ansie ornamentali e dubbi atroci: la macchina per preparare l'espresso sarà sufficientemente bella?

Il colore delle capsule con cui caricare l'apparecchio si intonerà a quello dei pensili in cucina? La Nespresso di capsule ne vende sedici, in scatole di legno invitanti come quelle dei cioccolatini, ognuna con un gusto e un colore diverso. La scelta può essere ardua e costare parecchio in termini di tempo e di sottili analisi sull'impatto estetico che la nuova apparecchiatura avrà sulla propria esistenza.

Di certo costa anche al portafoglio: il prezzo di una capsula - che nella maggior parte dei casi è una mistura di arabica e di una percentuale minore e variabile della meno pregiata robusta - è di circa 37 centesimi di euro. Con prezzi del genere, ci si avvicina al costo della tazzina bevuta al bancone, ma sentirsi come George Clooney, da anni testimonial del marchio, ciabattando nella propria cucina e magari pure in pigiama, ovviamente non ha prezzo. Ma le scuole di pensiero rivali accusano il brand più modaiolo: non è la miscela migliore. Forse il consumatore Lavazza, brand torinese che rimanda a immagini meno patinate è più spiccio nella scelta, con un approccio più piemontese verrebbe da dire, ma anche qua il prezzo a capsula supera i 30 centesimi.
Il consumatore Illy è invece un tipo sofisticato: con le macchine dell'azienda triestina di ultima generazione, la percolazione , ovvero la discesa del liquido attraverso il caffè, avviene in due fasi diverse - di infusione prima e di emulsione dopo - attraverso un processo che esalta gli aromi dei caffè, rigorosamente 100% arabica. Per chi preferisce Illy, insomma, la scelta della materia prima e degli strumenti non è da prendere sottogamba e non è certo una caso che l'azienda abbia fondato l'Università del caffè di Trieste. Si tratta di «un centro di eccellenza creato per promuovere, sviluppare e divulgare nel mondo la cultura del caffè di qualità», recita il sito, ricordando agli sprovveduti che anche per apprezzare i piaceri quotidiani bisogna studiare. Senza un master oggi non si va nemmeno al bar.

E che dire della moka? Il grande classico è quello della Bialetti, con brevetto del 1933, corpo in alluminio e manico in bachelite. Con la sua assenza di pretese glamour, fa rimpiangere i tempi in cui bere il caffè non era ancora una dichiarazione di appartenenza antropologica. Eppure la moka, con le sue forme art decò, la storia del design l'ha fatta per davvero, e oggi è un feticcio domestico per gli amanti della pausa caffè dal sapore vintage. Davide Oltolini, critico enogastronomico ed esperto di degustazione, consiglia di mettere il caffè su fuoco non troppo alto. Appena inizia a uscire, lo si deve togliere dal fornello e mescolare bene prima di versare, in modo da renderlo omogeneo. Meglio utilizzare una tazza calda.

Certo, la moka non fa la schiuma e richiede anche pazienza, perché sfidando ogni logica commerciale, è con il tempo e con l'uso che migliora le sue prestazioni; ma per molti bere il caffè a casa propria è legato ancora al gesto di caricare la macchinetta e aspettarne il gorgoglìo familiare. Come accade per il caffè alla napoletana. Più che un caffè, pura «poesia».

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