Dopo qualche mese di rodaggio, il governo di Giorgia Meloni si trova a dover compiere scelte economiche cruciali: ben sapendo che è in larga misura sulla base di queste decisioni che sarà giudicato. Non soltanto perché i cittadini misurano la maggioranza uscente (non sempre a ragione) confrontando la situazione di partenza e quella di arrivo, ma anche perché una parte dell’elettorato che ha optato per i partiti ora al governo ha chiesto una netta discontinuità rispetto al passato. Un po’ in tutta Europa, i governi di sinistra si sono spesso caratterizzati per una sorta di attrazione fatale nei riguardi delle tasse e per la volontà di usare la legislazione al fine di realizzare la solidarietà sociale. Quelli di destra, invece, hanno proprio cercato di cavalcare la reazione dei tartassati e quindi ne hanno chiesto il voto, annunciando di ridurre la pressione fiscale. Raramente, però, hanno avuto il coraggio di essere coerenti: colpendo la spesa pubblica e ponendo un «alt» al dirigismo regolatorio.
Anche il fatto che non si punti con decisione sulla micro-imprenditorialità diffusa (basti pensare alle polemiche in materia di affitti brevi) la dice lunga. Siamo insomma di fronte a un antistatalismo a metà, che qualche volta taglia le imposte, ma quasi mai usa il bisturi per eliminare norme e spesa. Il governo Meloni sta muovendo i primi passi e al momento non è facile giudicarlo. Talune scelte in tema contrattuale, contro le vecchie rigidità, sono comunque da salutare positivamente. Il mercato del lavoro non può essere tanto rigido e bloccato: è quindi ottima la scelta d’introdurre spazi di scelta. Ancor più importante è che s’inizi finalmente a invertire la direzione in tema di tasse. In particolare, è giusto che anche alla luce di salari fermi e prezzi alle stelle (dopo anni e annidi politiche monetarie espansive: si pensi a quanto fatto a Francoforte da Mario Draghi) si voglia realizzare una riduzione del cuneo fiscale, soprattutto a favore dei redditi più bassi. Tutto questo è però sufficiente? Assolutamente no. Sembra infatti che il nostro ceto politico sia poco consapevole delle dimensioni della crisi economica (aumento dei prezzi, stretta creditizia, crisi bancarie, aziende in difficoltà) e pure delle sue conseguenze sulla pelle di tutti noi, che stiamo perdendo potere di acquisto e per questo stiamo affrontando situazioni sempre più difficili. Ci vorrebbe allora un disegno più coraggioso che rilanci la libera iniziativa, partendo dalla constatazione che in Italia il numero delle imprese diminuisce di anno in anno e che sempre più si guarda con terrore alla sola prospettiva di aprire una partita Iva. Per operare una vera svolta, allora, si dovrebbe puntare sul privato, sulla deregulation, sulla difesa della proprietà, ma anche sul ridimensionamento della funzione pubblica nel suo insieme.
Per imboccare questa strada ci vorrebbe maggiore coraggio nel tagliare le spese (e il governo – se soltanto lo volesse – avrebbe dinanzi a sé una vasta prateria, data la grande massa di sprechi e sinecure), operando quel deciso abbassamento del prelievo tributario di cui l’economia ha necessità e che non si può realizzare aumentando deficit e debito.
All’interno della maggioranza nelle scorse settimane il leghista Riccardo Molinari aveva ipotizzato una riduzione dell’impegno dell’Italia sul fronte del Pnrr: in altre parole, meno debiti e meno spesa pubblica, oltre che meno finanziamenti agli amici degli amici. È un peccato che le nuove strategie economiche del governo non si siano costruite proprio partendo da lì.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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