Le liste civiche ci fanno finire come la Grecia

Dai grillini al listone Repubblica benedetto da Scalfari e osteggiato da Mauro: la decomposizione della politica rischia di produrre una lotta di tutti contro tutti

Le liste civiche ci fanno finire come la Grecia

Le liste civiche sono la Grecia. Cioè la frammentazione, la paralisi di governo, la rottura demagogica al posto della costruzione responsabile di una via d’uscita dalla grande crisi. La pasionaria Daniela Santanchè dice che, al contrario, è il momento del coraggio, non della responsabilità, e la proliferazione delle liste d’arrembaggio alla politica dei partiti è la soluzione, una politica di popolo espropriata da partiti in crisi e tecnocrati ne ha disperato bisogno. Il che è suggestivo, perché incanalare la protesta, e offrire una rappresentanza fuori da schieramenti e ceti politici logorati è una delle varianti di una democrazia che funziona. Perfino negli Stati Uniti, dove i due partiti storici hanno una tradizione di identità e insediamento fortissima, è ricorrente la tentazione di sparigliare le carte, sia a destra con l’esperienza Tea Party sia tra i democratici che esprimono un associazionismo vivace, battagliero, opulento anche sul piano del fund raising, che condiziona e influenza le campagne presidenziali. E ogni tanto arriva pure il terzo partito.
Anche Eugenio Scalfari la pensa così, fa il pasionario, in uno strano duetto con il direttore del giornale da lui fondato, Ezio Mauro, che lo pubblica e poi fa finta di non leggerlo, definendo «scemenza», con inconsueta irriverenza, l’ipotesi del giornale-partito o del giornale-tribuna che promuove e organizza le lobby e la loro discesa in campo elettorale, diretta o di fiancheggiamento. Dal loro punto di vista si capisce: i palasharpisti che vogliono sradicare il berlusconismo come fosse una malattia dell’anima italiana, che intendono cavalcare un’eventuale vittoria del centro sinistra in nome di idee punitive, epuratrici, moralistiche, nutrite da una lunga serie di faziosità e di bellurie anticasta, vogliono una rappresentanza diretta e decisiva per eterodirigere il Partito democratico e la sua finale coalizione, a tutt’oggi ignota. L’eterodirezione è la loro sempiterna vocazione di tardivi «azionisti», sia in senso finanziario sia in senso politico e civile (il rimasuglio di equivoco culturale costituito dalla loro lettura della storia originaria del piccolo Partito d’Azione). Sono battaglie di ceto, più che di popolo, sono girotondi ad alto tasso e ad alta resa mediatica, e la base di tutto è la saldatura del mediatico e del giudiziario.
L’operazione dei republicones è destinata a fallire come le precedenti, da Alleanza democratica a tante altre, perché è una cosa da mosche cocchiere, e anche un ronzino come il Pd non è detto sia disponibile a portare un basto così pesante sulla sua schiena. È fallito il tentativo di fare del governo Monti il veicolo della vendetta sociale e politica contro l’Arcinemico, può ben fallire anche questo tentativo. La concorrenza poi è forte. I grillini spingono. Ridurre a unità le vanitose aspirazioni al «montismo» come dottrina costituzionale, che l’ondivago Fundador ha predicato appena qualche mese fa, e le furiose intemerate contro il governo portate dai manettari e dai «ceti medi riflessivi» più radicali non sembrerebbe così facile. Poi c’è Di Pietro che ha bisogno del suo spazio vitale e Vendola che ha il compito di riportare il nulla vestito di «greco» al centro di una scena di nuovo tumultuante, quella della sinistra classista. Per non parlare della Fiom, che aspira a mettersi in proprio su piattaforme di lotta incompatibili con quelle di Libertà e giustizia, il club dei miliardari.
Il superamento o spolpamento del Popolo delle libertà, in sofferenza, procede su un altro terreno, come progetto. E ha ragioni costitutive e di programma più profonde. Forza Italia all’origine fu un movimento, un listone civico a vocazione maggioritaria. La vena critica verso l’euro com’è oggi, sotto il tallone di ferro della signora Merkel, può essere espressa in modo serio o con i fuochi d’artificio antifiscali (sconsigliabili per la salute della Repubblica) ma è comunque un fattore di spinta del cosiddetto «populismo», cioè di una naturale vocazione a mettere sotto scacco le politiche di élite che ci hanno portato a questa situazione. Gli italiani hanno capito che lo spread tra i titoli pubblici emessi dal Tesoro italiano o spagnolo e quelli emessi dalla Germania non dipendeva dalla paralisi in cui era costretto negli ultimi mesi il governo Berlusconi-Tremonti, ma da fattori mondiali e di mercato richiamati con senso dell’emergenza e dell’urgenza (anche per sé e per la sua campagna di rielezione) nientemeno che da Barack Obama. La favola della rovina finanziaria causata dal Cav. si è ampiamente dissolta. Lo spazio di una riconsiderazione è ampio e chiarificatore.


Resta il fatto che le liste civiche sono tutte vie che finiscono ad Atene, e dalla decomposizione (senza ricomposizione) della politica degli ultimi anni si rischia di uscire in una delirante lotta di tutti contro tutti, in un riprendere a darsele di santa ragione, che non è nell’interesse della nazione. E a nome di quale altro interesse ha diritto e dovere di parlare una destra moderna?

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