Capita che i fumi dell'antiberlusconismo più fazioso e ossessivo finiscano per accecare anche una grande firma, mandandola fragorosamente a schiantarsi. Ed è esattamente quello che è capitato oggi (ieri, ndr) a Francesco Merlo, con risultati a dir poco paradossali.
Intanto, qualche premessa. Primo: mio padre si occupa di politica, e con tutto il rispetto ha altro cui pensare che a un servizio fotografico. Secondo: la Mondadori, di cui sono presidente, è una casa editrice che impiega nel modo migliore quella libertà e autonomia che gli azionisti le hanno sempre doverosamente riconosciuto, e anche in questa occasione si è limitata a fare il suo mestiere. Non entro poi nel merito della questione delle foto della duchessa di Cambridge. Mi rimetto a quanto hanno già dichiarato vari esponenti della casa editrice, al di là del rispetto per i sentimenti di una giovane donna che sta scoprendo gli inevitabili risvolti della popolarità.
Quello che mi interessa sottolineare è l'assurdo ribaltamento della realtà cui arriva l'articolo della Repubblica, un giornale che, nel suo furore ideologico, da vent'anni cerca di cancellare mio padre dalla scena politica usando prevalentemente due armi: spiare dal buco della serratura, facendo strame della pur minima parvenza di privacy, ed evocare il fantasma del conflitto di interessi.
Oggi così c'è da non credere ai propri occhi leggendo come Merlo provi disinvoltamente a invertire i ruoli di vent'anni di persecuzione giornalistica. Che cosa avrebbe dovuto fare, secondo lui, mio padre? Per rispetto della privacy della duchessa e badando solo ai propri interessi di uomo politico, avrebbe dovuto calpestare l'autonomia editoriale della Mondadori, avrebbe dovuto costringerla a non pubblicare quello che la stragrande maggioranza di giornali di gossip, in ogni parte del globo, avrebbe fatto a gara per pubblicare (e in ogni caso ci avrebbe pensato Internet a diffondere in tutto il mondo quelle immagini).
Ma Merlo non si rende conto che accusa mio padre di non aver fatto proprio quello che da vent'anni gli viene contestato di fare, lo accusa di non aver mescolato la politica con le imprese? Non si rende conto che il suo articolo è la migliore certificazione di quanto il conflitto di interessi sia un pretesto tirato in ballo ora in un senso ora nell'altro a seconda delle convenienze? Non teme di cadere nel ridicolo quando denuncia «la libertà di stampa con la privacy degli altri» dalle colonne di un giornale che ha fatto proprio di questi comportamenti uno dei suoi cavalli di battaglia?
Lasciamo stare, per favore, improbabili «questioni di Stato» a proposito di questa vicenda.
Meglio riflettere piuttosto sui gravissimi guasti che al civile confronto fra le idee in questo Paese ha provocato un giornalismo così irrimediabilmente intossicato dal pregiudizio antiberlusconiano. Un giornalismo che ha nel gruppo editoriale per il quale Merlo lavora l'esempio più eclatante.
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