nostro inviato a Lazzate (MB)
La verità sta in una poesia che la famiglia di Cesarino Monti ha consegnato a una gremita e accaldata piazza di Lazzate al termine del funerale. «Manager, sindaco, senatore. Ma chi sei, lo dice il tuo nome: come i grandi condottieri, oggi anche i rivali sono venuti a renderti omaggio». C'erano tutti, infatti. Tutta la città. Soprattutto, tutta la Lega. I pochi che mancavano all'appello, hanno disertato nel timore che fosse «una sceneggiata, tutti a farsi vedere amici». La sceneggiata non c'è, piuttosto un clima da guerra sospesa, i vivi che smettono di sfidarsi in rispetto della morte di un amico. Manca all'appello Rosi Mauro, la grande espulsa: impegni improrogabili, dice il suo staff. I «bossiani», emarginati nel partito, ci sono tutti. Se Cesarino era «un combattente», il «partigiano della Padania» come lo definiscono qui, questo in fondo sa anche di ultimo saluto alla Lega del Guerriero, fatta di ampolle e parole d'ordine che stanno cambiando. A portarsela via, in fondo era stato proprio Cesarino, nella sua ultima uscita pubblica. Era il congresso della Lega Lombarda, lui sfidò alla segreteria Matteo Salvini, il giovane del nuovo corso maroniano, difendendo le ragioni del vecchio amico Umberto. Dal palco di Bergamo annunciò di avere un tumore, dicendosi però molto più preoccupato «per il cancro che sta distruggendo la Lega, trasformata in un postificio». I giovani lo avevano fischiato, rimbrottati da un Bossi amaro: «Sono quelli che in Lega sono entrati quando non si rischiava più la galera».
Ma oggi Cesarino gliel'ha fatta a tutti, costringendoli a venire qui a Lazzàa. Salvini è in seconda fila, col figlio piccolo. In prima fila Roberto Cota, Gian Paolo Dozzo, Federico Bricolo. E poi Bobo e Umberto. Quando il prete invita a scambiarsi un segno di pace, e il vecchio e il nuovo capo si stringono la mano, a qualcuno scappa un sorriso, perché è chiaro che qui oggi gli occhi sono anche puntati su di loro. Arrivano separatamente. Maroni per primo, con un'ora di anticipo. Entra nella camera ardente, c'è la famiglia di Cesarino, c'e Mario Borghezio. Poi ecco Roberto Calderoli, Stefano Stefani, Attilio Fontana. Terrei. Marco Reguzzoni stringe la mano a Maroni, ma i due quasi non si guardano. Quando arriva il Senatùr, Maroni è appena entrato in chiesa, gli altri l'hanno seguito. Un caso, solo che un volta i due sarebbero arrivati insieme. Bossi resta solo a salutare con un bacio e pugni affettuosi la bara del «compagno di battaglie».
Davanti alla chiesa c'è una corona di rose e gerbere «da Umberto e Manuela Bossi», segno dell'antica amicizia. Quando entra, il Senatùr siede vicino a Maroni. Mezzo abbraccio, poi segni di inquietudine. Bossi sposta in continuazione le gambe come fosse scomodo, piange spesso. Maroni rigira i pollici con nervosismo, poi scrive un biglietto e lo mette in tasca. Bossi gli dice qualcosa, lo fa sorridere. Il prete cita la parabola dei talenti, sprona a «reagire sempre uniti», avverte che «ogni azione ha una conseguenza morale sugli altri». I leghisti sono come imbalsamati. Non uno sguardo d'intesa, non un mento ad annuire.
La chiesa è stracolma, il vecchio e il nuovo corso mischiati. C'è anche Renzo il Trota, lo segue come un'ombra un timido Sirio Eridano, il fratello più piccolo, e ai giornalisti l'ex consigliere regionale in Lombardia dice: «Che faccio ora? L'agricoltore. Che faccio qui? Cesarino mi ha sempre trattato come un figlio». Dopo la cerimonia, sulla piazza a fianco alla chiesa il figlio di Cesarino fa appello all'unità e fra Bossi e Maroni c'è spazio per un sorriso. In serata il Senatur insiste, «non c'è alcuna scissione». C'è una bionda militante di cui l'Umberto non ricorda il nome. «Stai perdendo colpi» gli dice Bobo. Quando il corteo scorta il feretro verso il cimitero, la banda intona il Va' Pensiero.
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