Per descrivere Marco Pannella bastano alcune righe scritte di suo pugno nel lontano 1973. Tagliare anche solo una parola sarebbe un delitto. «Amo speranze antiche, come la donna e l’uomo; ideali politici vecchi quanto il secolo dei lumi, la rivoluzione borghese, i canti anarchici e il pensiero della Destra storica. Sono contro ogni bomba, ogni esercito, ogni fucile, ogni ragione di rafforzamento, anche solo contingente, dello Stato di qualsiasi tipo, contro ogni sacrificio, morte o assassinio, soprattutto se rivoluzionario».
Oggi il leader radicale ha il codino bianco, e qualche anno in più. Insieme ai Radicali è sceso in piazza per la «Seconda marcia per la giustizia, l’amnistia e la libertà». Una vita, la sua, consacrata alla battaglia per la vita del diritto. 67mila detenuti vivono stipati in celle che potrebbero ospitarne tutt’al più 45mila. Dall’inizio dell’anno si sono suicidati 18 detenuti. Contro questo bollettino di guerra e contro la bancarotta giudiziaria (9 milioni di procedimenti pendenti e 180mila prescrizioni l’anno), per Pannella la parola d’ordine è una sola: amnistia.
Sono trascorsi sette anni dalla prima edizione di questa marcia. Non è cambiato nulla?
«La prima marcia contemplava sia l’indulto che l’amnistia. Alla fine si fece solo l’indulto nel 2006, e in base a sondaggi non smentiti oggi sappiamo che il tasso di recidiva per chi beneficiò di quella misura è stato pari al 33,6%, che è meno della metà della recidiva ordinaria che supera il 68%. Rispetto ad allora è cambiato semplicemente il fatto che oggi chiediamo l’amnistia».
Chi è contro l’amnistia sostiene che senza riforme strutturali si tornerebbe al punto di partenza nel giro di poco tempo. Che cosa risponde?
«Rispondo: non dite stronzate. L’amnistia è già una riforma di struttura. Se sul penale avessero 500mila procedimenti pendenti anziché 5 milioni, saremmo già un altro Paese, sarebbe tutta un’altra storia. Con l’amnistia si libererebbero enormi energie finanziarie, logistiche, organizzative, che consentirebbero all’Italia di stare meglio di ogni altro Paese in Europa quanto a potenziale rapidità dei processi».
Veniamo alla riforma della giustizia. Quali sono le priorità radicali?
«Le nostre priorità sono quelle obbedienti alla storia radicale, ai nostri referendum: separazione delle carriere, abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale, riforma del Csm. Noi vogliamo riformare la giustizia attraverso la riattivazione del diritto. Guardi, nell’Italia fascista la legalità era abbastanza infame ma era rispettata. Qui non è rispettata nessuna legalità, né quella antifascista né quella fascista. Senza l’amnistia questo Paese finirà con le cose che aborro, i piazzale Loreto e la caccia alle streghe».
Il Dipartimento amministrazione penitenziaria ha reso noto che tra la fine di febbraio e la fine di marzo la popolazione carceraria è aumentata di 63 unità. Il decreto Severino non doveva «svuotare» le carceri?
«Sa tutto come avvocato ma non capisce nulla di giustizia. La Severino è questo».
C’è poi la questione spinosa degli abusi da parte della magistratura. Il simbolo negli anni Ottanta è stato Enzo Tortora che con voi Radicali ha condotto una campagna per la «giustizia giusta». Oggi rischiate anche voi di abbassare la guardia su questo?
«Non credo. Per noi non ha mai smesso di essere la priorità assoluta della nostra vita da trenta, quarant’anni».
Faccio un esempio. Il deputato del Pdl Alfonso Papa è finito in carcere preventivo, anche col voto favorevole dei radicali, salvo poi scoprire dal Tribunale del riesame che non c’erano gli estremi per l’arresto. Per non parlare poi delle intercettazioni illegali dichiarate inutilizzabili nel processo. I Radicali hanno mollato questo fronte «garantista»?
«Certo che no. Quello che accade è il frutto di trent’anni di antidemocrazia dei “democratici” di destra e di sinistra».
I parlamentari radicali sono stati eletti nelle liste del Pd. Bersani, vostro «alleato», è a favore dell’amnistia?
«Se lo chiede a lui, ancora non lo sa».
A proposito di Berlusconi e del sexygate che lo ha travolto Piero Sansonetti, uomo di sinistra, ha parlato di un «golpe» dei magistrati per annientarlo.
«Io dico che è perfino vero. Ho accusato pubblicamente una parte della magistratura lombarda con base a Milano di un disegno ignobilmente piccolo per accelerare i tempi del passaggio al potere da Berlusconi non tanto ad Alfano - che nessuno sapeva che c’era - quanto al vergine Formigoni. Per cui la magistratura ha dispiegato tutte le sue forze contro il puttaniere, passando magari giorno e notte con le puttane, mentre dinanzi al vergine Formigoni, dinanzi allo spergiuro e traditore della propria parola, si è limitata ad assegnare un solo magistrato. Così l’emersione della truffa elettorale da noi documentata è stata ostacolata in tutti i modi».
Pannella, lei si avvia a diventare il «padre nobile» dei radicali?
«Io per ora continuo a essere il figlio discolo e di “una mignotta” della baracca, da quello non possono dimettermi. Non ho mai avuto poteri formali né statutari».
È quello il segreto, o sbaglio?
«Se è così però mi chiedo: perché non lo fanno anche gli altri? Perché non lo fa anche Bersani? E invece lui non lo fa, poveretto...»
Pannella, voliamo con la fantasia.
«Come ho scritto, la prima cosa che farei sarebbe dimettermi perché, se il Paese mi eleggesse democraticamente, vorrebbe dire che non ha più bisogno di me».
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