Adriana Bastia, 79 anni, vive a Crevalcore in provincia di Bologna con il marito ottantaseienne. Sedici anni fa di anni ne aveva 63. Era il 1996 quando le diagnosticarono un tumore al polmone al terzo stadio: un microcitoma di 7 centimetri con infiltrazioni ai bronchi, al cuore e al mediastino, dunque inoperabile. Affrontò sei cicli di chemioterapia e 25 applicazioni di radioterapia. Risultato? Il cancro non venne scalfito di un millimetro, il suo aspetto era identico a quello manifestato prima delle cure: 7 centimetri di massa estese ad altri tre organi. Di buono c’era che il microcitoma non era nemmeno cresciuto ma sentite a che prezzo: “Non riuscivo più a fare un piano di scale – ricorda Adriana che ora, con sedici anni in più, le stesse scale le fa almeno quattro volte al giorno – Certi giorni non riuscivo nemmeno ad alzarmi dal letto. La vera botta per me è stata la radio, ero ridotta a uno straccio”. Non era tutto. Per Adriana, dopo le cure, non ci sarebbe stato più nulla da fare. Lo dissero i medici dell’ospedale Sant’Orsola al marito, di nascosto da lei. “Ma io capii lo stesso, la sentenza di morte era stampata sulla faccia di mio marito…”
Partiamo dall’inizio. Come si accorse del tumore?
“Per caso, non mi dava disturbi. Nel ’96 ebbi una colica intestinale, il medico mi prescrisse una serie di esami, fra i quali una lastra al torace”.
Che disse…?
“Non compresi subito, mi venne consigliata una tac. Da lì il responso: carcinoma polmonare a piccole cellule, 7 centimetri…”
Ha mai fumato?
“Da giovane sì ma per pochi anni. Devo aver iniziato a 16 anni e smesso otto anni dopo”.
Dunque nessun disturbo per quei sette centimetri di cancro in quattro organi?
“Mai una tosse preoccupante o un problema respiratorio, neppure dolori.”
Cosa fece dopo la diagnosi?
“Mi affidai al Sant’Orsola e affrontai la chemioterapia da febbraio a giugno: avevo perso i capelli, avevo una nausea persistente… Man mano perdevo sempre più le forze, poi in agosto la radioterapia mi diede il colpo di grazia…”
In che senso…?
“Non mi reggevo più in piedi, dovevo essere sostenuta, ero invecchiata di botto”.
A 63 anni…
“Già (sorride) per me il tempo è girato al contrario: ora a 79 anni vado spedita ovunque…”
Ma dopo quelle cure estenuanti gli esami cosa rivelarono?
“Il mio tumore non rispondeva alle terapie, mi fecero credere che le cose erano migliorate ma, siccome non mi diedero altre cure e la faccia di mio marito parlava da sola, io stetti al gioco, finsi di crederci…A lui comunque dissero che non ci sarebbe stato altro da fare, se non alleviare i dolori al momento opportuno…”
A quel punto, quando pensò di essere condannata, cominciò la cura Di Bella?
“Le mie figlie si interessarono, erano gli anni del clamore mediatico. Fuori dallo studio del professor Di Bella la coda dei malati era interminabile, ci rivolgemmo al dottor Achille Norsa di Verona. Cominciai la cura in ottobre, dopo dieci giorni ripresi a far le scale da sola, dopo 3 mesi i primi risultati”.
Ovvero?
“Il tumore regrediva ed io riprendevo sempre più le mie forze, stavo sempre meglio”.
Si faceva da sola l’iniezione di somatostatina?
“No, aveva imparato mio marito, tenevo la siringa temporizzata dalle 8 alle cinque del mattino, sono andata avanti così per sette anni. Ora ho ridotto le dosi, prendo un terzo del farmaco una volta ogni sette giorni.”
Quanto vi è costata la cura?
“Per la somatostatina pagavamo 1 milione e mezzo delle vecchie lire, c’era il mercato nero…”
Davvero?
“Eccome. Quando il farmaco venne tolto dalla fascia A, esente da ticket, il prezzo lievitò e in Italia si faceva fatica a trovarlo, mio marito doveva andare in Germania o a San Marino, un’assurdo, un modo davvero crudele per contrastare la libertà di cura”.
Oggi, a distanza di 16 anni sta continuando la terapia e il microcitoma si è ridotto di quanto?
“Proseguo con dosaggi blandi, in più assumo i galenici, melatonina, vitamine e retinoidi, il mio cancro è diventato
E lei si sente bene…
“Una meraviglia, ho anche un marito che è più in gamba di me, due figlie, cinque nipoti e sto per diventare bis-nonna”.
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