L’INTERVENTO

Va detto grazie all’amico liberale Piero Ostellino per aver trattato sul Corriere, giovedì scorso, in maniera molto corretta la questione giustizia col suo editoriale «L’Italia del pregiudizio». Lo dico doverosamente da liberale perché sullo stesso Corriere non di rado il tema giustizia viene trattato in maniera parziale. Ostellino ha preso spunto dal caso atroce dei due fratellini di Gravina e del padre rinchiuso in carcere sulla base della convinzione (dovuta - dice Ostellino - a una «correlazione tra sistema giudiziario e sistema mediatico») che fosse il colpevole della scomparsa dei ragazzi. Ecco dunque un aspetto grave della nostra giustizia, che Ostellino definisce «volto discutibile della giustizia penale».
Com’è nostro stile affrontiamo questa delicata e fondamentale questione con la solita fairness per segnalarla soprattutto ai politici che in questa campagna elettorale si confrontano vis-à-vis con l’opinione pubblica esibendo programmi e promesse. C’è una grande verità nel rilievo di Ostellino: è da qualche decennio che taluni settori dei due sistemi si sostengono a vicenda e ne sono venuti casi che hanno agitato la società, diffuso sospetti, sparso veleni, sconvolto e rivoluzionato cultura e strutture del sistema politico.
No, non siamo qui per difendere chi ha violato le leggi o offeso la morale pubblica. Ma da liberali sentiamo il dovere di contribuire a far sì che il nostro sistema torni a essere garantista, e cioè che lo Stato di diritto non sia solo una espressione retorica, che sia rispettato il contratto sociale tra istituzioni e cittadini, i quali, come già insegnarono liberali e illuministi come Hocke, Hobbes, Rousseau, hanno rinunciato ai diritti ricevuti da madre natura a favore di organismi (lo Stato, le istituzioni) che quei loro diritti non devono calpestare.
Non è solo il caso di Gravina a sollecitarci queste considerazioni. Da almeno due decenni, e anche più, si verificano casi di anomala giustizia. Nel mio Italia da rifare del 1973, al capitolo «La crisi della giustizia» cito frasi di due magistrati: Mario Elia: «Un tempo la vita giudiziaria aveva l’armonia delle musiche classiche. Salivano ogni mattina le scale del palazzo di giustizia come quelle dell’altare»; Mario Ramat: «Quando decido una causa scelgo quella che a me pare l’unica soluzione giusta, mentre nella stanza accanto c’è un altro giudice che arriva alla soluzione opposta».
Quanta involuzione da allora a oggi: la politica spesso condizionata da magistrati che intendono la loro funzione come potere, magistrati scesi in politica a pontificare e parteggiare e, nell’esercizio delle loro funzioni, dediti qualche volta ad accanimenti giudiziari, correlandosi spesso, appunto, con poteri mediatici, anomalia di cui si lamenta ora l’ex magistrato Di Pietro, protagonista di un caso giudiziario.
Ecco come si distrugge la credibilità del sistema giudiziario. E ci sono anche politici che si lasciano andare ad affermazioni come questa: «Esponiamo al ludibrio della nazione i grandi evasori» (frase di Bertinotti, che pure è persona corretta e un rivoluzionario serio).
Annotare casi simili non significa voler favorire gli evasori, ma difendere il sacrosanto principio che un cittadino è colpevole solo quando è dimostrato, e comunque mai, neppure se si tratta di un mostro, va esposto al ludibrio pubblico. Questa è la civiltà, questo è lo Stato di diritto.
Per finire, diciamo anche che non ci piace neppure che un magistrato stimato come Piero Grasso prospetti l’idea di eliminare il secondo grado di giudizio, cioè l’appello. La nostra civiltà giuridica si ribella a tale ipotesi.


E finiamo qui, per ora, con queste libere considerazioni, che offriamo all’attenzione soprattutto dei liberali, i quali devono sentirsi investiti della missione di battersi più degli altri perché in Italia torni la piena civiltà giuridica.

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