Milano A Roma, Francesco Rutelli liquida l’adesione del Pd al nuovo gruppo social-democratico nel Parlamento europeo. A Milano, Enrico Letta sgrana un rosario di contestazioni al medesimo Pd, a cominciare dai tempi in cui è stato costituito. «Bisognava farlo nel 2002», dice l’ex enfant prodige prodiano. Per il partito di Dario Franceschini è una fortuna essere ancora in campagna elettorale, il che costringe a serrare le file e non esagerare con le critiche, così anche le staffilate dei centristi vengono quasi tacitate dai leader.
In realtà Letta e Rutelli approfondiscono le distanze da Franceschini. Il segretario, che ieri mattina a Bruxelles ha incontrato il capogruppo del Partito socialista europeo Martin Schulz, considerava un grande successo l’adesione all’Asde (Alleanza dei socialisti e dei democratici) all’europarlamento decisa dopo poche battute. Ma non ha fatto i conti con la stizza di Rutelli: «Vedo troppa faciloneria, la decisione è ancora tutta da prendere», ha sibilato l’ex numero uno della Margherita.
Enrico Letta ha approfittato della presentazione milanese del suo ultimo libro «Costruire una cattedrale», edito dalla berlusconiana Mondadori (tavola rotonda alla quale hanno preso parte gli imprenditori Anna Maria Artoni e Francesco Micheli, il politologo Michele Salvati e il vicepresidente della Camera Maurizio Lupi) per aggiungere legna al rogo delle critiche, naturalmente costruttive ma sempre fastidiose per un partito nato da poco e ancora alla ricerca di se stesso.
«Abbiamo sbagliato i tempi», dice Letta: lui che pensa in grande, che paragona lo sforzo di edificare il Pd ai mastri artigiani medievali che erigevano le chiese («non avrebbero visto la fine di capolavori che resistono ancora dopo mille anni»), giudica un errore aver fondato così tardi il Pd. «È complicato costruire un grande progetto politico stando al governo. Si è perso troppo tempo dietro inutili manovre interne, così la nostra cattedrale è nata sotto le costrizioni di un’esigenza tattica».
Un errore le primarie fatte come sono state fatte, un capolavoro di ipocrisia, tre milioni e mezzo di persone chiamate non a scegliere un leader ma a ratificare una decisione già presa: «Tra le liste che sostenevano Veltroni mancava solo quella “Nemici di Veltroni per Veltroni”». Un errore anche quello di rincorrere i sondaggi e di aver trasformato la campagna elettorale nell’ennesimo capitolo di una saga anti-Berlusconi. Scelta suicida, come ha ricordato Lupi, che pure è amico di Letta e con lui promotore dell’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà: «Il Pd in un anno ha perso quattro milioni di voti, metà andati a Di Pietro e metà all’astensionismo. Se si sceglie la strada del populismo, gli elettori premiano gli interpreti più autentici».
Per l’ex sottosegretario di Romano Prodi l’ultima spiaggia è il congresso di ottobre. «L’ultima speranza, poi è finita», ha detto sibillino Enrico Letta senza esplicitare che cosa finirà: la pazienza, la speranza o il partito stesso. «Il Pd ha davanti a sé una strada obbligata, diventare il perno centrale di un’alleanza di governo che possa convincere i moderati». Tradotto, significa che Letta picchia sul chiodo su cui batte da tempo: alleanza strategica con l’Udc. Nel libro scrive parole chiare, ricordate da Salvati, riferite al voto del 2008 e alle regionali ma ribadite dalle Europee: «Le ultime elezioni hanno definitivamente confermato la minorità strutturale del centrosinistra». Minorità strutturale vuol dire che il Pd è condannato alla sconfitta eterna se non cambia qualcosa.
La ricetta di Salvati è un immediato ritorno al passato: legge elettorale maggioritaria e formazione di un grosso partito di centro che di volta in volta scelga di allearsi con la destra o la sinistra.
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