Uno dei capolavori remoti di William Butler Yeats è The Oxford Book of Modern Verse, pubblicato nel 1936. Il poeta, nobilitato dal Nobel più di un decennio prima, compila la lista dei «poeti migliori, vivi o morti», dal 1892; l’estro del critico, affilatissimo, si fonde con quello, lunare, del rabdomante. Così, nella stessa, inclassificabile, raccolta sono adunati Thomas Hardy e Gerard Manley Hopkins, T.S. Eliot e Wystan H. Auden, James Joyce e Rudyard Kipling. Naturalmente, Yeats antologizzò Ezra Pound: era stato il suo segretario personale, lo aveva introdotto ai misteri del teatro «no» giapponese, avevano giocato insieme a tennis, a Rapallo, negli anni Venti.
Fu criticatissimo: in quel libro, a suo modo miliare, Yeats intruppa le nobili amiche (l’eccentrica, ricchissima, talentuosissima Dorothy Wellesley, ad esempio) e le nobili anime: quella di Margot Ruddock - tra tutte, sua ultima giovane amante, alla quale fece pubblicare l’unico libro, liminale al diamante, The lemon tree, nel 1937, edito in Italia, da Magog, come Vita, l’assalto, 2022 - che finì i suoi giorni, travolta dalla mania, in un ricovero psichiatrico. Appare anche Shri Purohit Swami, il guru indiano da sofà di Yeats, con cui, a Maiorca, avrebbe tradotto le Upanishad: in quei «saggi della foresta che hanno pensato tutto» riconobbe barlumi «della filosofia pagana irlandese». Oriente e Occidente si fondevano nella speculazione del grande poeta; India e Irlanda erano un tutt’uno; i druidi dialogavano con i padri del deserto, le fate con gli angeli. «Credo come credevano i vecchi saggi che sedevano sotto le palme, i banani o fra le rocce rese irraggiungibili dalla neve, mille anni prima della nascita di Cristo», scrive in un appunto che precede l’ultima delle più grandi poesie, Under Ben Bulben.
Ecco: William Butler Yeats. Omero in Irlanda (Ares), di Rosita Copioli, la massima yeatsologa italiana, dichiara la centralità disarmante di Yeats nel canone della poesia del Novecento, la sua inattuale attualità. In particolare, la prima parte, «Viaggio in Yeats», è un elogio del potere teurgico della poesia, del ruolo mesmerico del poeta. Tra le moltissime figure che appaiono nel libro- Fellini, ad esempio- ricordo quella di Mario Manlio Rossi, filosofo italiano introdotto a Yeats nel 1931. Lo descrisse come «un uomo sereno, con i poveri occhi stanchi, con la testa sempre un poco curva in avanti». Il «caro Rossi», otto anni dopo ricevette da Elizabeth, la sorella di Yeats, una lettera. Il poeta era morto, in Francia, a Cap-Martin; «la signora Yeats testimonia che aveva uno splendore meraviglioso sul viso». Alcune poesie di Yeats- Sailing to Byzantium, ad esempio, dal cui primo verso, «That is no country for old men», Cormac McCarthy trae spunto per uno dei suoi romanzi più cupi; poi The Tower e The Second Coming - vanno divinate per srotolare un destino, fitte di versi che “agiscono”.
Nel 1922 Yeats era stato eletto senatore dello Stato libero d’Irlanda; il primo presidente della Repubblica d’Irlanda, Douglas Hyde, aveva pubblicato non memorabili poesie per la sua casa editrice, la Dun Emer Press.Come a dire che il poeta è il vero garante dell’identità di una nazione, il suo vero re.
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