Lettere sul Nulla. Emil Cioran, il Male di scrivere

Il carteggio che mette a nudo lo scrittore

Lettere sul Nulla. Emil Cioran, il Male di scrivere
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Lo scetticismo dissacrante di Emil Cioran (1911-95) esercita una notevole fascinazione intellettuale. Allo stesso modo, in quanto perversione tragica che tende a degradare in pose estetizzanti, rischia di alimentare sacche di disapprovazione. Una veste che può infatti apparire monotona ma che non è mai pratica artificiosa o furba: «Mi sento a mio agio nelle sue rovine», scrive Samuel Beckett, dopo aver letto Il funesto demiurgo. È appunto nella presa in coscienza della vacuità delle cose umane, nella disposizione apocalittica e nell'ebbrezza dell'abisso che prende il via uno strano attaccamento alla vita che fa della sua letteratura un unicum.

A svelare questi intrecci è Il nulla per tutti (Mimesis), una raccolta, a cura di Vincenzo Fiore, della fitta corrispondenza con grandi personalità del '900, da María Zambrano a François Mauriac, da Ernst Jünger a Elie Wiesel. Il tono patisce talvolta l'ossequiosità tipica della conversazione epistolare. Ma una volta esaurite le formalità, e seppur sempre rinserrato in una solitudine caratterizzata dalle stimmate del male dove l'ossessione del suicidio è elevata a insopprimibile strumento di libertà, Cioran inizia pigramente ad aprirsi su altre questioni. Lo fa, per esempio, in una lettera a Carl Schmitt del 1950: «Conosco l'importanza della sua carriera, la serietà delle sue opere, e so troppo bene che io sono un dilettante, un tuttofare. Eppure, leggendo le sue pagine su Kleist il cui suicidio era una delle mie grandi ossessioni mi sono sentito legato a lei dal più profondo attaccamento». E da lì, considerazioni sulla dicotomia amico/nemico e sulla desolante angoscia che emanano le pagine di Ex captivitate salus. A Marguerite Yourcenar scrive: «Il mio stato di salute è alquanto incerto. La macchina si rompe con il passare degli anni»; e a Paul Celan: «Godo di salute piuttosto cagionevole e trascino miseramente i miei giorni».

A ridosso di questo pessimismo radicale riesce dunque a incorporare di tutto, tranne la politica che, invece, appare elemento ininfluente. Va segnalato uno scambio del 1979 con Alain de Benoist, il quale ha il coraggio di fargli la domanda delle domande: «Mi ha chiesto risponde Cioran - perché non mi uccido; potrei a mia volta chiederle perché Lei condivide determinate chimere sino al punto di proclamarle, di organizzarle in corpo di dottrina». Superato il rilievo sulle sue contraddizioni prova anche a smarcarsi dall'incasellamento ideologico: «Mi lascia perplesso una definizione così opinabile come quella di pensatore reazionario. Le vecchie categorie di destra e sinistra mi sembrano superate. Possiamo ovviamente servircene occasionalmente e per comodità, ma in fondo esse non fanno altro che eludere l'essenziale».

Interessanti le lettere che hanno a tema la richiesta di una borsa di studio dalla Bollingen Foundation, che gli sarà poi concessa nel 1960. La lettera di ringraziamento al presidente è un condensato di cioranismo: «Caro Signor Barrett, mi libera dal terrore di andare a mendicare manoscritti da leggere da questo o da quell'editore, un lavoro degradante, che fanno la maggior parte degli scrittori squattrinati.

Si tratta, provi a immaginare, di romanzi per principianti, quasi sempre illeggibili. Piuttosto che arrivare a questo, ho giurato a me stesso di diventare uno spazzino o, anche senza fede, di inebetirmi superbamente in qualche convento».

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