Un inedito di Giuseppe Prezzolini
L’Italia non è romana: l’Italia è romana quanto la Francia, la Spagna, il Portogallo, la Romania; cioè a dire un Paese che ha derivato la sua forza da un’altra espressione, che è l’individuo, e questa nozione dell’individualismo italiano viene da uno dei grandi svizzeri, il Burckhardt, che ha scritto mi pare nel 1850 un grande libro sulla Rinascenza, in cui l’elemento fondamentale è l’individualismo degli italiani.
L’individualismo ha fatto sì che l’Italia non si è mai potuta costituire in nazione.
E si è costituita in nazione per influsso straniero.
Era un grande uomo questo Burckhardt: questo libro ancora oggi dice qualche cosa. Dopo oltre cento anni è un libro che dice qualche cosa: questo libro dice che gli italiani sono di natura indipendente, ognuno vuole fare per conto proprio, ognuno vuole essere separato dall’altro, ognuno vuole essere «capo», soprattutto (ilarità). Basta un piccolo gruppo ed egli (l’italiano, ndr) vuole essere il padrone, per dominare gli altri.
Non è vero che gli stranieri hanno portato la dominazione straniera in Italia: essa fu dovuta a Ludovico il Moro che chiamò i francesi: prima essa non esisteva.
Esisteva che cosa? Una separazione di comuni.
Quali sono le grandi creazioni politiche dell’Italia? La prima è il comune. Il comune è una cosa straordinaria: dal buio del Medioevo, dal buio della fine dell’impero romano, dalla confusione, dal disordine sorgono qua e là in Italia dei piccoli centri che si chiamano città. A un certo momento hanno il diritto di chiamarsi «città»: Modena, Parma, Piacenza, Lucca, Pisa, Firenze.
Ognuna cerca di avere dal potere di allora, dall’imperatore, dal Papa, il diritto di essere uno Stato. E questi Stati si fanno la guerra, per secoli, fino che uno non inghiotte l’altro, quando può.
La mia Siena fu conquistata da Firenze dopo trecento anni di lotte e, nell’ultimo stadio, i difensori di Siena andarono in fondo al territorio del comune, a Montalcino, e difesero ancora per cinque anni l’indipendenza della loro Siena che non esisteva più.
Chi ha evidenziato questa importanza della città nella storia italiana, non solo nella storia politica, ma nella storia morale del popolo italiano, fu una persona che è stata presso di voi vent’anni e, nonostante che fosse cittadino di Milano, ebbe anche delle cariche cittadine - perché allora la Svizzera permetteva a degli stranieri di avere delle cariche pubbliche -: Carlo Cattaneo, il quale partecipò alle vostre polemiche locali, com’era lui attaccabrighe, rivoluzionario e quindi anche con un grande ingegno, ma quasi sconosciuto in Italia.
L’Italia non ha mai accettato Cattaneo per la semplice ragione che Cattaneo era propagatore del concetto che il migliore Paese, la migliore amministrazione, il migliore sistema politico è quello della Confederazione, quello che aveva visto qui in Svizzera. Lo propose all’Italia, ma l’Italia gli prepose Mazzini, che voleva l’unità.
Perché? Perché per Mazzini la politica dipendeva da Dio, cioè da un concetto di unità universale.
Ciò che era vero per gli italiani, doveva essere vero per i giapponesi, per i lapponi, per gli argentini, per qualunque altro Paese.
Il concetto di un governo generale, uguale per tutti, è un concetto mazziniano: non è un concetto di Cattaneo.
Cattaneo è stato un apostolo, invano - ed anche un grande scrittore per conto mio - della amministrazione locale. Ed infatti, quando si parla con gli italiani (quando dico italiani, tutti siete italiani qua, parlando italiano intendo; questa è la «Svizzera italiana», non credo di dire un’enormità, vero? Siete italiani anche voi: non politicamente, ma almeno linguisticamente), questi italiani non si sono mai rassegnati a quello che gli è venuto dal di fuori.
Questo Risorgimento è stato un vestito straordinario, un vestito non comune, messo sopra delle persone che non lo potevano portare.
Oggi si vede che cosa è accaduto con il Risorgimento.
L’Italia attuale è una triste cosa... triste: per un italiano è una triste cosa, un triste momento, e speriamo che si sollevi da questo.
Ma questa tristezza viene anche dalle sue origini: false. L’italiano non ha mai sentito, come gli inglesi, il bisogno della libertà.
La libertà, nei comuni italiani, era semplicemente l’indipendenza dai comuni vicini. Quando i fiorentini si dichiararono «liberi», lo fecero perché non volevano che venisse il governo spagnolo a comandarli. Oppure, nel caso di Siena, i cittadini di Siena combattevano per la «loro» libertà.
La parola «libertà», in Italia, ha per significato «il comodo mio»: io faccio il comodo mio, voglio la mia libertà, non la libertà degli altri, non la libertà delle altre idee, non la libertà di polemica, non «la libertà»... Ho detto qualche cosa di male? (applausi).
Ora, gli italiani hanno vissuto di illusioni; in tutti i modi vivono di illusioni, intendiamoci bene, in tutti i modi. Anche il mio popolo americano vive di illusioni; ma questi italiani hanno vissuto con il mito di Roma. Gli è sempre parso di essere i discendenti dei romani.
Non sono i discendenti dei romani: tutta l’aristocrazia romana fu distrutta dai cosiddetti «barbari», dai goti, dai longobardi soprattutto, dai franchi più tardi.
Rimase il popolo minuto forse, in qualche posto, ma tutto, tutto fu cambiato: gli italiani non sono i figli dei romani; gli italiani sono figli del Medioevo.
Perché tanta meraviglia, l’altro giorno, quando un numero imprecisato di persone ammazzò otto persone? Tre, perché secondo loro li avevano traditi e cinque perché erano testimoni? Che meraviglia?
Voi non sapete che cos’era il brigantaggio! Io, da bambino, ho viaggiato con mio padre, che era un alto funzionario italiano. Per recarsi dalla città di Grosseto alla campagna aveva accanto due carabinieri a cavallo: uno da una parte e uno dall’altra della vettura perché, diceva «un prefetto non può essere sequestrato», cioè a dire che al tempo mio il sequestro esisteva talmente che in una città - non del Mezzogiorno - era possibile che un prefetto venisse sequestrato.
Vi meraviglia di quelle persone, ma voi sapete quanto è durata la guerra del brigantaggio in Italia? Perché chiamate «Brigate rosse» quelli che si dovrebbero invece chiamare «briganti rossi» (applausi).
I «briganti rossi» sono esistiti in Italia dal ’60 al ’70. La guerra interna italiana, dopo che Garibaldi conquistò a prezzo di poche vite il Regno di Napoli, durò dieci anni, dal 1860 almeno fino al ’70, e costò molto di più della cifra di morti di tutto il Risorgimento.
Perché queste sono le cifre che noi rivelammo, avute dal ministero della Guerra italiano, di morti di tutto il Risorgimento: dal principio alla fine furono seimila morti. Una cifra che oggi fa ridere, quando le nostre guerre portano sei milioni di morti, sessanta milioni di morti! Mentre i morti della guerra del brigantaggio furono diecimila! Per dire che gli italiani persero più uomini in una guerra interna.
Questa guerra, chiamata del brigantaggio, era una guerra sociale e politica. Fondata su delle ragioni sociali profonde e fondata sull’aiuto dei poteri che ancora esistevano in Italia liberi, cioè il potere papale, le ambasciate di Spagna, che davano denaro a questi briganti, i quali facevano quello che hanno fatto l’altro giorno i brigatisti rossi: ammazzavano, bruciavano le vittime, bruciavano villaggi.
Questa storia, la storia del brigantaggio in Italia, è conosciuta da poche persone: non c’è un libro generale che racconti questa tremenda storia.
L’Italia fu fatta con la forza. È una cosa delle più curiose della psiche umana. Pur di non avere la leva, il meridionale preferiva mettersi in campagna, andare con i briganti. Preferiva morire da brigante che fare il soldato.
E quando dico del soldato - sono stato soldato anch’io - dico che il soldato italiano non era affatto peggiore degli altri. Ma era male guidato, male istruito, mal rifornito, mal nutrito. Ha combattuto male perché l’Italia combatté contro l’Austria nella proporzione di tre uomini contro uno: combatté male, ma non era colpa sua.
Il popolo italiano ha una grande pazienza: lo vedete in questi giorni, che pazienza. Come un altro popolo non sarebbe insorto contro quello che accade in Italia oggi! Ma il popolo italiano ha molta pazienza, troppa pazienza, poi qualche volta scoppia, si irrita. Ha ragione, ha perfettamente ragione poiché non c’è, probabilmente, altro che la forza che lo possa levare da una data situazione.
Soltanto che lo fa per delle cause accidentali e personali. È possibile avere uno sciopero in una fabbrica perché quella fabbrica è stata toccata. Ma poi, quando si tratta di un’azione più larga, di un principio, allora la cosa non gli interessa.
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