L'ultimo giorno di Fiume e dell'utopia rivoluzionaria

Il 26 dicembre 1920 la battaglia fratricida tra l'esercito italiano e i legionari di D'Annunzio

L'ultimo giorno di Fiume e dell'utopia rivoluzionaria

Nelle elezioni del novembre 1919 Mussolini prese, con i suoi Fasci di Combattimento, poco più di quattromila voti e nessun deputato. Meno di due anni dopo, alle politiche del maggio 1921, ottenne 35 deputati, lui in testa. Non avrebbe ottenuto un risultato così clamoroso se Giovanni Giolitti, capo del governo, non avesse accolto i fasci nei Blocchi Nazionali: il duce ebbe la sua fiducia anche tradendo Gabriele d'Annunzio, che dal settembre 1919 al Natale del 1920 aveva occupato Fiume con i suoi legionari.

Fin dall'inizio dell'Impresa di Fiume, Mussolini aveva messo sé e i suoi uomini a disposizione del Vate e aperto sul suo giornale una sottoscrizione il cui ricavato terrà in gran parte per rafforzare i fasci. Nel 1920 il suo movimento poteva essere ancora considerato antigovernativo, almeno finché in novembre Giolitti concluse a Rapallo il trattato di pace con la Jugoslavia che stabiliva i confini fra i due Paesi. A quel punto doveva chiudere la vicenda di Fiume, ma il poeta non aveva intenzione alcuna di lasciare, per un trattato che considerava iniquo, la città dove aveva iniziato una rivoluzione politica, culturale, sociale che avrebbe voluto diffondere in Italia e nel mondo.

Già in ottobre il duce aveva incontrato segretamente il prefetto di Milano, Alfredo Lusignoli, intermediario privilegiato tra lui e il governo. Si videro in prefettura, nello stesso palazzo di corso Monforte da cui venticinque anni dopo Mussolini uscirà per cercare salvezza e trovare la morte. Mussolini propose soluzioni di accordo internazionale che di certo non sarebbero piaciute a d'Annunzio e le propose anche al ministro degli Esteri Sforza, che lo riceve in un giro di colloqui con i direttori dei principali quotidiani.

Quando, poco prima di Natale, d'Annunzio mandò un emissario a Mussolini per assicurarsi il suo appoggio, il duce rispose: «Quel tuo poeta è grande, ma è pazzo! Noi i questurini li abbiamo alle costole giorno e notte... e ci arresteranno tutti da un momento all'altro...». Il Comandante, come chiamano d'Annunzio, ingenuamente crede si tratti di tatticismo politico e continua a contare, per resistere, sull'appoggio di Mussolini e dei suoi fascisti, oltre che sulla ribellione di una parte dell'esercito italiano.

Giolitti alla vigilia di Natale ordina l'attacco militare alla città, contando sul fatto che il 25 e a Santo Stefano i giornali non sarebbe usciti. Mussolini ha dato ordine ai suoi uomini, specialmente a quelli di Trieste, di non intervenire. Dopo una tregua il giorno di Natale, alle 10 di Santo Stefano i regolari muovono l'assalto, e l'ammiraglio Simonetti, comandante delle forze di mare, prima fa puntare i cannoni sulle navi dei legionari, poi la corazzata Andrea Doria si dispone in posizione di tiro davanti al Palazzo del Governo.

D'Annunzio sta organizzando la battaglia assieme ai suoi ufficiali, chino su un tavolo pieno di carte. L'architrave della finestra vola in pezzi, lui viene investito dai calcinacci che gli graffiano il cranio, quattro ufficiali irrompono nell'ufficio e lo trascinano via. Lungo lo scalone giace il corpo di un sergente, uno degli uomini di guardia, colpito da una scheggia nella schiena. D'Annunzio è sconvolto: l'esercito italiano - l'Italia - gli ha sparato, speravano di ucciderlo. Sparandogli, l'Italia ha dimostrato di non meritare la sua vita. Scrive, nel proclama Agli italiani del 28 dicembre: «O vecchia Italia, tienti il tuo vecchio che di te è degno. Noi siamo d'un'altra Patria e crediamo negli eroi».

Alla resa, poco dopo, si calcola che la battaglia ha provocato più di 50 morti 25 soldati, 22 legionari, 6 civili - e oltre 200 feriti: niente rispetto alle carneficine della guerra, ma una cifra spaventosa in tempo di pace e in un combattimento fratricida anche se l'Italia, di lì a poco, si dovrà abituare a altre vittime in tempo di pace. Stanno per iniziare gli anni dello squadrismo fascista.

L'accordo viene firmato alle 16.30 del 31 dicembre. Il 6 gennaio d'Annunzio convoca un ultimo gran rapporto con gli ufficiali del Comando. «Il fascismo uscì condannato dal discorso del Comandante», ricorda uno dei presenti, e il poeta vietò ai suoi di entrare nel movimento fascista. Non sarà così. Il Vate si sarebbe ritirato al Vittoriale, mai fascista ma godendo degli onori che il fascismo gli tributava.

Il fascismo avrebbe preso da Fiume, più che uomini, riti e miti, ma ignorando il programma di rinnovamento radicale dello Stato sulla base della Carta del Carnaro, la costituzione avanzatissima che d'Annunzio aveva scritto per Fiume. Si dette così un'immagine eroica, ma mai si sarebbe sentito, durante il regime fascista, il saluto finale che aveva lanciato dal balcone del municipio di Fiume: «Viva l'amore. Alalà!».

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