Macaluso: «Due oligarchie al capolinea»

Macaluso: «Due oligarchie al capolinea»

da Milano

«Al capolinea». Altro che canto augurale: il titolo del libro di Emanuele Macaluso sulla nascita del Pd suona come un epicedio.
Macaluso è uno dei padri della sinistra italiana. Sindacalista della Cgil e comunista fondatore della corrente «migliorista» del Pci con Giorgio Napolitano, negli anni ’80 ha diretto l’Unità, mentre ora guida il mensile Le nuove ragioni del socialismo e firma sul Riformista.
Ma soprattutto Macaluso non è un conformista, disdegna le banalità, non fa «gruppo». E dunque può permettersi, in poco più di un centinaio di pagine (editore Feltrinelli), di mettere a nudo le ambiguità di un progetto politico fragile ed evanescente.
L’autore ripercorre le storie politiche distinte delle due componenti che confluiscono nel Pd. Da una parte la sinistra post comunista, dall’altra la sinistra democristiana. Che ci fanno insieme, che cosa hanno in comune? Due cose: hanno condiviso la conflittualità con il Psi di Craxi negli anni Ottanta e sono sopravvissute allo tsunami di Tangentopoli. La tesi di fondo è che entrambe, non essendo riuscite in 15 anni a portare a compimento la transizione nella Seconda Repubblica, ora si tuffano nel Partito democratico per rigenerarsi.
Ma due debolezze non fanno una forza. Nei Ds colpisce «il permanere, nelle numerose piroette tattiche proprie di questo gruppo dirigente, di una estraneità di fondo dalla cultura socialista italiana ed europea». Dalla Cosa 2 di D’Alema alle timidezze di Fassino, i post comunisti hanno perso troppe volte il treno socialista. E sono rimasti (culturalmente) appiedati. «Mi chiedo quali possano essere i nuovi traguardi nella cultura politica di questo partito. Il quale non ha nemmeno più un gruppo di intellettuali riconosciuto e impegnato nella battaglia delle idee». E nella Margherita, prosegue Macaluso, «le cose non sono poi così diverse, per quanto riguarda la ristrettezza del gruppo dirigente e la gestione oligarchica del partito (...) un partito di vecchio stampo, con una metodologia in cui il correntismo è coperto da una coltre di ipocrisia e sorretto da un tesseramento gonfiato». Dunque nel Pd si ritrovano due gruppi dirigenti provati da decenni di battaglia politica, timorosi di perdere il controllo degli apparati. «Sono evidenti i limiti di chi, attraverso il Pd, cerca di mantenere le leve del comando piuttosto che dare sbocco alla crisi del potere».
Il risultato, a dispetto dei cori entusiastici, è modesto: dai «congressi mediatici» ai «documenti vuoti, non all’altezza delle sfide» come lo stesso manifesto del Pd. Macaluso osserva, ricostruisce, esprime giudizi anche secchi ma sempre misurati. E infine spiega perché preferisce farsi da parte.

Non segue i compagni, nemmeno i Morando e i Ranieri. «Miglioristi» come lui, emarginati dal gruppo dirigente della Quercia ma «intruppati» in un nuovo contenitore in cui non troveranno le ragioni per cui si sono sempre battuti.
giuseppe.salvaggiulo@ilgiornale.it

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