Dice il saggio: fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce. Quanto aveva ragione Lao Tse. In Italia se un sindaco fa segare un tronco malato scoppia il finimondo ambientalista. Fanno la festa ai politici mentre dovrebbero fare festa appena oltre le periferie urbane. Perché le piante nel nostro Paese continuano ad aumentare, lentamente, inesorabilmente, a dispetto perfino degli ecologisti. Sul suolo patrio negli ultimi 200 anni non ci sono mai stati tanti boschi come adesso. È un fenomeno inarrestabile che cresce appunto nel silenzio. Ma questa assenza di rumore sconfina nel disinteresse, nell'abbandono, nell'incuria.
Le foreste italiane non si sviluppano secondo piani di rimboschimento controllato o programmi di consolidamento di terreni che rischiano di franare. Non c'è progettualità in questo Paese sempre più fronzuto. Gli alberi proliferano per l'abbandono dei campi e dei pascoli. Gli agricoltori non coltivano i fondi, gli allevatori non portano le vacche all'alpeggio, le malghe cadono a pezzi. I boschi guadagnano terreno perché le aree rurali vengono trascurate. E si espandono invece giungle spesso impenetrabili.
TRENT'ANNI DI BOOM
È una fotografia sorprendente quella scattata dall'Inventario forestale nazionale (Infc). Esclusa la Russia, siamo al sesto posto in Europa: le selve italiane ricoprono il 5 per cento della superficie forestale totale europea e oltre un terzo dei 30,1 milioni di ettari del territorio italiano. Si stimava che negli anni '30 arrivassero a circa 4 milioni; il primo Inventario del 1985 ne censì 8,7 milioni che sono saliti a 10,3 nella seconda rilevazione (2005). Ora siamo a 11 milioni di ettari: 10.982.013, secondo le valutazioni preliminari dell'Inventario 2015.
In trent'anni la crescita è stata impetuosa, 26 per cento circa di cui il 6,2 nell'ultimo decennio. Con percentuali a due cifre nelle regioni meridionali, quelle a maggiore vocazione agricola e dunque con maggiori superfici tralasciate. Più 16,6 in Molise, + 13,2 in Sicilia, + 11,1 in Basilicata, + 10,5 nel Lazio. E poi + 9,9 in Calabria, 9,6 in Campania, + 8,6 in Abruzzo.
Al momento i valori dell'Infc 2015, il terzo mai effettuato, sono provvisori: «Le stime derivano dalle attività di fotointerpretazione condotta dal Corpo forestale dello Stato con il nostro supporto tecnico-scientifico», spiega Patrizia Gasparini, ricercatrice dell'Unità di ricerca per il monitoraggio e la pianificazione forestale Cra-Mpf di Trento. Ai rilievi fotografici dall'alto deve ora seguire la verifica a terra dell'uso del suolo, che però è rallentata dalla riorganizzazione della Forestale imposta dal governo Renzi. L'Inventario segnala a parte gli impianti, cioè i boschi - soprattutto pioppeti - piantati su terreni riconvertiti che in tutto raggiungono i 150mila ettari (erano 122mila nel 2005). Il dato che ne esce è univoco: l'allargamento dei boschi è legato all'abbandono delle zone agricole marginali. «Soltanto 1.700 ettari all'anno sono dovuti a imboschimenti, il resto è espansione naturale», conferma Gasparini.
«Vi è una pazienza della foresta scriveva Jack London assecondando il suo richiamo -, ostinata, instancabile, continua come la vita stessa». Anche per il sommo Dante la selva, benché oscura, era una metafora del «cammin» dell'esistenza. Il paesaggio italiano è più verde, dunque si vive in un Paese più sano, almeno così verrebbe da pensare secondo l'«ecologicamente corretto». Un territorio dove non si può più parlare di deforestazione come si faceva fino a metà del secolo scorso. Che assorbe più ossido di carbonio e combatte i gas serra. Che erige un argine alla cementificazione. Che mette radici più profonde contro il dissesto idrogeologico. Ma è davvero tutto oro quello che luccica nella vulgata ambientalista? L'avanzata incontrollata dei boschi significa anche perdita di radure, di aree aperte, di biotopi e habitat nelle zone alpine con conseguente depauperamento del patrimonio di flora e fauna tipica. È il frutto dell'abbandono di terreni incolti e prati d'altura dove non si pascola più, è il sigillo definitivo sullo spopolamento di aree rurali e montane. Molti boschi sono fittissimi, inaccessibili, oggetto di scarsa o nessuna manutenzione anche perché la gestione meccanizzata è spesso impraticabile, e perciò più indifesi davanti alle minacce degli incendi e, più prosaicamente, agli attacchi dei parassiti delle piante.
DALL'ALBERO AL TAVOLO
Manutenzione dei boschi non equivale soltanto alla cura naturalistica ma anche al loro sfruttamento economico. Perché le foreste rappresenterebbero un grande patrimonio per settori produttivi come la filiera del legno-arredo-edilizia, la prima in Europa, un caposaldo del «made in Italy», o quella della carta. Secondo l'ultimo Annuario dell'agricoltura italiana, nonostante l'aumento della superficie boschiva l'utilizzo delle biomasse rimane irrisorio: si sfrutta appena il 30 per cento dei nuovi volumi contro il 60 per cento della media europea. Non è un segnale di attenzione all'ambiente, tutt'altro. Perché esiste una controindicazione anche per il rischio idrogeologico. Se i rami non vengono periodicamente tagliati, aumenterà il peso che grava sul fusto: invecchiando, l'albero strapperà le radici dal suolo e alimenterà il rischio di disastri anziché combatterlo. Fronde e fogliame accumulati a terra possono ostruire gli scoli dell'acqua contribuendo ad accrescere i pericoli di alluvioni. È uno dei mille paradossi italiani: spuntano sempre nuovi alberi ma parallelamente aumentano le importazioni di legname. Mobili, prefabbricati, parquet e serramenti costruiti in Italia con materiale proveniente da Francia, Croazia, Austria, Slovenia. Abbiamo enormi quantità di legna da sfruttare ma quella estera resta più conveniente. Si calcola che ogni anno i boschi italiani producano circa 30 milioni di metri cubi di biomassa che potrebbe essere impiegata, almeno in parte, per fini energetici o industriali senza intaccare il patrimonio boschivo esistente. Viceversa, segnala ancora l'Annuario agricolo, anche considerando il legname usato dai proprietari fondiari per consumo personale e i tagli inferiori a certe quantità per i quali non esiste obbligo di comunicazione, difficilmente si potrebbe raggiungere un prelievo superiore ai 10 milioni di metri cubi rispetto ai 30 milioni disponibili e ai 18-20 che metterebbero l'Italia in linea con gli altri grandi produttori di legna europei.
LA GIUNGLA DI CARTE
Esistono ostacoli geografici, limiti legati alla conformazione del territorio. All'estensione della superficie forestale non hanno fatto seguito né gli investimenti sul territorio né una sforbiciata alle normative che ne regolano lo sfruttamento. Ogni angolo verde d'Italia ha i propri criteri di gestione, normative provinciali e regionali spesso molto diverse da zona a zona aggrovigliate con i vincoli imposti dalle sovrintendenze varie. Sui boschi incombono pesanti limiti a come e quanto tagliare, senza contare le pratiche da sbrigare per ottenere il passaggio dei terreni da agricoli a boschivi. In questo modo i costi che gravano sui privati (proprietari del 65 per cento della superficie forestale nazionale) per la gestione dei boschi e la relativa attività di prevenzione dai rischi ambientali sono molto elevati se messi a confronto con la resa economica del legname. Costi appesantiti dalle ridotte dimensioni medie delle proprietà. E così, spesso, è più conveniente abbandonare i terreni non più destinati alle colture agricole all'ancestrale richiamo della foresta. Succede così che l'industria italiana dei prodotti del legno importa oltre l'80 per cento della materia prima con una spesa annua di circa 10 miliardi di euro.
Non si tratta soltanto di essenze pregiate per l'edilizia, ma anche di legna da ardere. Per contro l'industria della carta e del cartone ha un fabbisogno sempre inferiore. Merito dell'aumento della materia prima riciclata. E della crisi dell'editoria.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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