Marini, il lupo che lotta coi numeri

Il presidente del Senato costretto agli equilibrismi dalle esigenze dell’Unione

Gianni Pennacchi

da Roma

Si può chiedere a un lupo di farsi leone? Franco Marini è avvezzo a capeggiare un branco, azzanna soltanto quando la preda è già sua, va e viene nella notte tessendo trame ardite e complicate. Ghigna, talvolta ulula. Di certo il ruggito non gli si addice e lo rende ridicolo, non riuscirà mai a sovrastar la savana con un colpo di criniera mettendo in riga elefanti e iene. Il leone infine non s’affatica più di tanto, a caccia per lui vanno le femmine. E a Marini poi, non han fornito cacciatori di alcun genere.
È tutto qui, il dramma del presidente del Senato: la sua natura lo vorrebbe lupo, l’Unione, anzi Romano Prodi, lo vuol leone. E lui si dibatte in gabbia, costretto ad arrampicarsi sui numeri. Il funambolo e l’equilibrista gli tocca impersonare, mentre l’opposizione lo accusa di fare il gioco delle tre carte e la maggioranza lo sprona ad andare avanti così, «bene bravo bis». Bei tempi, quando vinceva i congressi del pubblico impiego Cisl nella notte, lasciando ferito a morte Bruno Storti al mattino. E bei tempi ancora, quando faceva approvare i contratti nelle assemblee di fabbrica schierando in prima fila i sindacalizzati, in modo che la maggioranza scontenta si sentisse accerchiata, e lui al microfono piegava la cronaca alla storia: «L’accordo è approvato quasi all’unanimità».
Glielo han chiesto, se sia più facile coi senatori oggi che coi lavoratori allora. «I lavoratori mica scherzano», ha risposto. Con l’alzata di mano ci prova ancora al Senato e non gli va mai bene, però recupera lesto col voto elettronico, forte dei pareri che gli fornisce Tonino Malaschini, il segretario generale lasciatogli in eredità da Marcello Pera. Ma è stanco, il lupo marsicano. E ieri sera sui suoi monti, a Caporciano dove inaugurava un monumento all’emigrante, ha sospirato: «È stato un dibattito vivace, serio, ma ormai è alle nostre spalle».
Sì, vivace e serio... Con la Cdl che non accettava il verbale della sera prima, e lui costretto a scomporre la tabellina pitagorica per l’esito finale della fiducia sull’Afghanistan: «Numero legale 160, senatori presenti 162, 161 i votanti, 161 i voti a favore... Va bene così? Il Senato approva». E sì che va bene, in realtà andava bene anche la sera prima quando per la fiducia all’articolo 2 aveva dichiarato «presenti 159, voti favorevoli 159», scatenando la bagarre poiché avrebbe dovuto dire «presenti 160» contando se stesso che per correttezza non vota ma contribuisce a formare il numero legale. Son pronti a impallinarlo quelli dell’opposizione, perché temono i trucchi e i giochini del vecchio sindacalista, ma in realtà Marini coi numeri non ci prende proprio. Già il 13 giugno, si stava votando lo «spacchettamento» dei ministeri, era stato così abile nel non vedere i «pianisti» che votavano a quattro mani, quanto maldestro coi risultati. Sino a derogare al regolamento - «me ne assumo la responsabilità!» scandì seccato - e pubblicizzare la controprova elettronica dell’alzata di mano che gli compariva sul piccolo schermo presidenziale: «Il risultato della votazione è 158 sì, 155 no, un astenuto».
Volete che s’arrampichi sui numeri come un merlo indiano? Così ieri, dopo quest’altra sofferta fiducia, ricevendo il rituale ventaglio dei giornalisti è tornato a ribadire che sì, «è un diritto costituzionale del governo» far ricorso al voto di fiducia, ma si impone «politicamente ogni sforzo per riportare l’uso di questo strumento a livelli fisiologici». Non vuol parlare di «allargamento della maggioranza», né di «rimescolamento tra i poli», però almeno «un dialogo sulle grandi scelte» Marini lo pretende.

Dal Pdci è giunto immediato il niet: è «paradossale» sentenzia Marco Rizzo, proprio sulle «grandi scelte deve sprigionarsi una forte discontinuità». «Peccato che Marini sia vittima della linea di Prodi», chiosa Francesco D’Onofrio.

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