Aveva un suono strano quella parola, quando eravamo bambini. Indicava qualcosa di incerto, inafferrabile, confuso. Non pauroso ma nemmeno lieto. Un vago incubo. Ce lo avevano spiegato al catechismo: il limbo era il luogo dove andavano le anime dei bambini morti senza aver potuto ricevere il battesimo. Innocenti, sì, ma segnati dal peccato originale, quindi non degni del Paradiso. Provavamo pietà per quelle animucce che immaginavamo in lacrime, un po’ come ci era capitato quando, più piccoli, ci eravamo ritrovati all’improvviso soli per la strada o in un altro luogo e non trovavamo più la mamma. Smarriti, insomma.
Il limbo è stato rappresentato molto meno del Purgatorio o dell’Inferno, è stato trascurato dai pittori. Quelle nostre lontane infanzie, ancora intrise di pratiche devozionali, avevano ben presenti i quadretti e i santini con «le anime purganti» che rosolavano felici con le mani giunte e gli occhi rivolti al cielo perché quelle fiamme erano solo un passaggio verso la beatitudine. Ma gli abitanti del limbo che cosa facevano?
Poi abbiamo imparato che quella sensazione di vago, di incompiuto, di malinconico era stata sempre avvertita dai fedeli. Certo non tutti avevano letto la terzina dantesca («Luogo è la giù non tristo da martìri/ ma di tenebre solo, ove i lamenti/ non suonan come guai, ma son sospiri») eppure anche nel sentire comune il limbo era un luogo senza luce. «Scür cume ’l limbu», si dice in Piemonte. Non le tenebre infernali ma un’oscurità nebbiosa, una caligine spessa e grigia. «’l asmja ’l limbu dei santi padri», si dice nel Biellese per indicare un luogo fumoso o un giorno di nebbia.
Nell’impagabile libro di Gian Luigi Beccaria Sicuterat (Garzanti) che raccoglie tutte le espressioni latine, bibliche e liturgiche passate nel parlare comune, anche il limbo ha numerose citazioni. La parola è di origine latina: limbus, «orlo, margine» e giustamente indica una situazione indefinita, un luogo al confine fra la dannazione e la salvezza, o meglio un «non luogo». Trovarsi «nel limbo» significa questo appunto: vivere un momento di indecisione, di incertezza. Shakespeare in Enrico VIII calca un po’ la mano e ne fa una metafora: il «Limbo Patrum» è nient’altro che la prigione.
«Ess ancura in dal limb» nel Piacentino vuol dire invece non sapere che cosa succede, essere all’oscuro dei fatti. Il significato di «indefinito» si trasforma in lontano, irraggiungibile, sconosciuto: «stà de cà al limbo» dice Carlo Porta, al posto di «stare a casa del diavolo» in uso ai giorni nostri.
Proprio per l’aura indefinita di cui è circondata, la parola limbo viene spesso usata anche come eufemismo. Fra le varie espressioni che si usavano un tempo per alleggerire la crudezza del verbo «morire», oltre che «andare all’alleluia», «andare al confitemini», «andare a porta inferi» (è sempre Gian Luigi Beccaria che ci informa), c’era anche «andare al limbo», così tanto per essere più garbati. Nello stesso spirito in Trentino, per mandare qualcuno all’inferno, si preferiva dirgli «Va’ al limbo».
Molte di queste espressioni sono ormai desuete, così come desueto da oggi si fa il concetto stesso di Limbo. E un nuovo Dante oggi non saprebbe dove collocare Virgilio, il giusto non redento perché rimasto «sanza battesmo perfetto di Cristo».
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