Gatti apre la Stagione Sinfonica della Scala

Il maestro dirige la sinfonia «Resurrezione» stasera al Piermarini. Il prossimo è Chailly

Piera Anna Franini

È Daniele Gatti a inaugurare oggi (repliche il 16 e 19), la Stagione Sinfonica della Scala. Dirige la Sinfonia «Resurrezione» di Mahler, partitura che Gatti prescelse per il suo debutto - nel settembre 2016 - come direttore dell'Orchestra del Concertgebouw di Amsterdam. Milanese, 55 anni, apre una stagione che si dota di un concerto in più, passando da sette a otto (da moltiplicarsi per tre serate), con Mahler inteso come filo conduttore. Alla Seconda sinfonia, seguiranno, infatti, la Terza affidata a Riccardo Chailly e la Nona a Herbert Blomstedt, a giugno.

Mahler sta ai complessi del Concertgebouw come Verdi alla Scala: sono compositori nel dna delle rispettive città e formazioni. Un azzardo proporre Mahler a Amsterdam? E come lo vivono gli scaligeri? Gatti non ha timori reverenziali, o almeno non li confessa: «Penso di portare un certo tipo di lettura», spiega alludendo ai complessi olandesi che - appunto - sono mahleriani dalla nascita. Quanto a Milano: «In questi giorni ho lavorato bene, con serenità», aggiunge con la pacatezza che connota questi suoi anni di maturità artistica. Pacato con moto, tuttavia: «Oggi sembra che sei nessuno se non compari sui social. Io non sono sui social, e sono qualcuno» ha detto al primo degli Incontri culturali organizzati dalla Scuola della Cattedrale del Duomo. Con schiettezza ha ricordato che spesso, nella vita professionale, si è ritrovato a percorrere strade ripide e scomode, «sapevo che c'erano percorsi più comodi, ma volevo andare avanti così. La diversità, però, si paga con la solitudine e l'isolamento: tante volte mi sono ritrovato così».

Gatti detesta i bagliori del coté commerciale della musica, è insofferente verso il culto per l'immagine. Ha sempre voluto «togliere il superfluo. Se potessi, metterei un paravento fra direttore e pubblico. Il pubblico dovrebbe poter ascoltare, sebbene capisca che c'è un aspetto spettacolare». Lo irritano il rituale dei «complimenti dopo il concerto, il capello al vento, il gesto eclatante» di alcuni colleghi. E scherza, «quando ero più giovane i capelli c'erano e si muovevano, vedevo direttori dal gesto trascinante. Io mi sentivo svilito da tutto questo». Quindi alla domanda su chi sia oggi il direttore d'orchestra, risponde: «Io faccio il direttore, ma prima ancora, credo di essere musicista e interprete». E ricorda i primissimi anni di studio, i saggi scolastici, i primi concerti. La mente va alla sobrietà meneghina di casa Gatti, «ho avuto la fortuna di avere due genitori estremamente sensibili, capirono che nel bambino c'erano dei talenti da sviluppare, ma mi tennero coi piedi per terra. Quando mi esibivo, loro non erano mai in prima fila, sempre nell'ultima». Gatti s'è formato nel Conservatorio di Milano, studiando composizione, direzione e pianoforte. «Da pianista suonavo facendo anche più errori dei miei compagni di scuola. Non ero un virtuoso, però riuscivo a entrare nel brano».

Il pensiero va infine al pubblico. Allo stato d'animo del pubblico quando mette piede in una sala da concerto. E gli viene da paragonare lo spettatore a lui che segue l'omelia di un sacerdote.

«Capita che ne venga conquistato, addirittura rapito, mentre altre volte l'attacco è stato così debole che poi finisce per pensare ad altro».

Similitudine per dire che tanto è nelle mani del direttore, chiamato a trascinare l'orchestra e con essa il pubblico: al quale si chiede sempre e comunque uno sforzo.

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