C'è anche la milanese Cristina Trivulzio di Belgiojoso, donna simbolo dell'epopea risorgimentale, «elegante organizzatrice di barricate e salotti», fra le italiane che «hanno osato per impeto, per ragione o per amore» rievocate dalla neopresidente del Consiglio Giorgia Meloni nel discorso programmatico a Montecitorio. Una carrellata di donne che hanno impresso svolte epocali nella politica, cultura, scienza, società, sport e costume: dalla pioniera del ciclismo in rosa Alfonsina Strada che pedalò nel Giro del 1924, alla prima presidente della Camera Nilde Iotti, da Maria Montessori a Grazia Deledda, da Rita Levi Montalcini a Oriana Fallaci, da Samantha Cristoforetti a Marta Cartabia, altra milanese illustre, docente universitaria in Bicocca e Bocconi, Guardasigilli e prima donna a presiedere la Corte Costituzionale.
In questo straordinario Pantheon quella di Cristina Trivulzio non era affatto una citazione scontata: il fatto è che non combatté solo gli Austriaci, ma prima di tutto il pregiudizio, la malattia (sua e degli altri), la solitudine, i pettegolezzi, le distanze geografiche e culturali, i disagi del viaggio e dell'esilio, l'arretratezza di una società ancora contadina. E dire che per garantirsi un'esistenza tranquilla le sarebbe bastato accomodarsi da «giovin signora» nei dorati saloni dei suoi palazzi a Milano o Locate. Ben 16 le biografie che ripercorrono una vita non lunga (63 anni), ma straordinariamente ricca e avventurosa. Figlia di Gerolamo Trivulzio, discendente di una storica famiglia dell'aristocrazia milanese, a Milano nacque nel 1808, in piena Età napoleonica.
Le inquietudini private che non la abbandonarono fino alla scomparsa nel 1871, iniziarono prestissimo. Dopo un'infanzia travagliata, appena sedicenne volle contro il parere di tutti sposare in San Fedele, la chiesa poi tanto cara al Manzoni, l'affascinante e impenitente libertino Emilio Barbiano principe di Belgiojoso, da cui si separò poco dopo la nascita della figlia Maria (forse illegittima) e non prima di avergli consegnato la vertiginosa dote di 400mila lire austriache, 4 milioni di euro di oggi. Più del danaro potè la dignità: «Credetti dovere al mio decoro, scrisse dopo l'ennesimo tradimento, di non acconsentire formalmente alla continuazione delle sue relazioni con la Ruga». Nonostante l'epilessia che la affliggeva, abbracciò la causa della liberazione nazionale e divenne «giardiniera» (così le Carbonare che si incontravano in parchi e giardini), in contatto con i principali patrioti.
Braccata dal capo della polizia Torresani che congelò i suoi beni, fuggì rocambolescamente in Francia (memorabile il passaggio del confine a Nizza), dove continuò a contribuire alla causa italiana guadagnandosi da vivere con lezioni di musica. Sovvenzionò insurrezioni, organizzò salotti frequentati dai protagonisti dell'arte e della letteratura (fra gli altri Liszt, Heine, de Musset, Mignet, con alcuni dei quali le vennero attribuiti flirt), entrò in contatto con le idee filosofiche, sociali ed economiche più avanzate. Tornata in Italia, il '48 la sorprese a Napoli, dove mise in piedi un battaglione per contribuire alle Cinque Giornate di Milano.
Diresse ospedali e soccorsi durante gli scontri a Roma, intrattenendo corrispondenza con Carlo Alberto e Napoleone III. Dopo il fallimento dei moti romani si avventurò in Asia Minore dove organizzò dal nulla una comunità agricola. Nel 1855 tornò a Locate e trasformò il suo palazzo in un vero e proprio falansterio, la comunità ideale di Fourier, organizzando asili e scuole, creando scaldatoi pubblici e donando doti alle sposine indigenti.
Pochi anni dopo ebbe la soddisfazione di vedere l'Italia unita, ma esauritosi il suo impegno politico morì dimenticata da tutti, persino da coloro che, grazie ai suoi sacrifici, ora sedevano su scranni importanti del giovane Regno. Ma si sa: anche l'ingratitudine è un «tetto di cristallo» che a volte, per fortuna, qualcuno si ricorda di infrangere.
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