Il rap esce dalla periferia, lascia i quartieri difficili e fa il suo ingresso in pieno centro. I fighetti della zona uno si sono stufati di fare da bersaglio ai ragazzotti disagiati di Baggio, della Barona o di Corsico nelle loro composizioni in rima. E rispondono, ovviamente rappando, a modo loro: senza felpe col cappuccio alzato o pantaloni col cavallo basso. Indossano maglioncini di cachemire e non si perdono un aperitivo. Del resto, sostengono, per fare rap «non serve venire dal ghetto, basta avere la musica dentro».
La Milano-bene del rap risponde al nome di Rdp, autori di «Egopass», un ironico affresco della città da bere: della periferia, degli scippi, della droga non c’è traccia. È il rap dei bauscia, quelli per cui «corso Buenos Aires è già periferia», quello che parla dei «ragazzi cresciuti sul pavé». Una provocazione? Di sicuro una perfetta istantanea della borghesia milanese che ostenta il Suv, il completo Bardelli, la casa in pieno centro «con i portieri italiani» e una collezione di amici col doppio cognome. E nel testo non manca una frecciata a chi fa rap dall’esterno della Cerchia: «Per raggiungermi devi pagare Ecopass» cantano i fighetti. L’ironia non viene colta da tutti. Tanto che su Internet il video viene sommerso di critiche e insulti. Il popolo dei rapper, quelli veri, non sente ragioni e non ci sta a veder scimmiottare una musica nata per denunciare, per dire no, per riscattarsi.
A Milano la battaglia tra rapper si consuma in ogni zona e l’ingresso dei ragazzi laccati del centro è solo l’ultimo tassello del complicato puzzle del rap milanese. In ogni zona c’è il «musico» di riferimento, che tante volte appartiene anche a una crew, cioè a un gruppo di graffitari.
Tra i primi a farsi conoscere c’è stato Oscar Spennati, in arte Oscar White, il rapper della case bianche che ha denunciato la penosa situazione degli stabili di via Feltrinelli, pieni di amianto e dimenticati per anni. Poi ci sono stati quelli che hanno sfondato: da Marracash, originario della Barona, ai Dogo gang, il collettivo hip hop nato attorno ai Club Dogo.
Ma sono tanti, tantissimi, i ragazzi che ci provano, che mettono in rima le loro frustrazioni. C’è Simoncino, originario di Baggio, che ce l’ha con «i finti emancipati della metropoli» e canta le sue «note di periferia». C’è Sino Spadino, della Barona, che «ti pippa (ndr, ti ruba) il motorino» e racconta delle baby gang cresciute tra furtarelli e ritrovi nei capannoni abbandonati. Razzaparte fa uno spaccato sulla vita di Bonola: «Bi-o-enne-o-elle-a è un quartiere di ’sta c... di città» dove «non puoi scegliere». I Josh Mck (che sta per Milano criminal klan) descrivono il Corvetto come un quartiere dove «i palazzi si sgretolano e i soldi mancano», dove regnano «degrado e cattiveria». E la loro denuncia prende ancora più forza a guardare il video, girato con una sirena della polizia sullo sfondo, con immagini di muri scrostati e impennate in motorino. I Ghettospaccio family parlano invece di una Milano in cui «al Giambellino se ti fermano lo fanno col coltellino» e dove in Paolo Sarpi i cinesi non sono disadattati e i latin king non sono affamati. Dipingono in rime una città in cui «per vedere un Cristo in croce non devi andare al cinema».
A dimostrazione del fatto che il rap rappresenta i tempi che cambiano, basta dare un’occhiata alle new entry del settore: a fare musica di strada ci sono anche parecchi stranieri.
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