Alla Scala va in scena Weber Un «Cacciatore» versione dark

Il direttore Chung dopo 19 anni ripropone l'opera che il regista Hartmann trasforma in viaggio psicologico

Piera Anna Franini

«L'opera ha bisogno di essere critica sociale per essere importante? O può parlare anche di aspetti psicologici?» si chiede Matthias Hartmann, il regista che cura la nuova produzione de Il franco cacciatore di Carl Maria von Weber, in scena alla Scala da oggi al 2 novembre. Fa questa debita premessa per anticipare che, benché tedesco, la sua non è un regia alla tedesca, non offre letture sociologiche, ma entra nell'animo dei personaggi, va sottopelle.

Il franco cacciatore è Opera Romantica, si legge sul frontespizio della partitura. E ancor prima, visceralmente tedesca, anche se venne creata in una Germania di là da venire, giusto abbozzata (benché Metternich si guardò bene dal definirla «espressione geografica»). In lingua tedesca, su soggetto caro al Romanticismo tedesco, è ambientata nelle foreste della Boemia, intessuta d'elementi fantastici e diabolici, spiriti, diavoli, incombe un'inquietante Gola del lupo. C'è un cacciatore ingenuo, Max, un malefico Kaspar, Agathe sorta di donna angelo, Kuno, guardaboschi oltre che papà di Agathe, il principe Ottokar che giudica, condanna e concede la grazia per intercessione dell'Eremita. Si celebrano riti infernali, ma anche la divina misericordia, si praticano arti magiche, si forgiano proiettili surreali.

Prevarranno, di fatto, tinte cupe, tenebrose. A partire dalla foresta carbonizzata, con tronchi bruciati. Uno spettacolo dark, talvolta rischiarato da abbagli di lampade al neon, con installazioni un po' in rimando a Bruce Nauman, ricorda il regista. Lo scenografo Raimund Orfeo Voigt spiega che per l'allestimento si è partiti dalla Gola del lupo. Non immaginatevi canyon o anfratti. La Gola del lupo è uno di quegli elementi che regista e scenografo intendono in modo metaforico: «La Gola del lupo è nella testa di Max. Non è un luogo esterno. Vedrete talvolta Max portare le mani al volto» per tradurre, appunto, il carcere che porta in sé, la disperazione.

Per la verità già l'orchestra di Weber dipinge i paesaggi dell'anima, spesso dà voce ai recessi dell'inconscio con l'immediatezza che giusto la musica conosce. Raffigura montagne incantate con le sonorità vellutate e aeree di clarinetti e corni che con Weber conoscono finalmente la ribalta. Sul podio, Myung-Whun Chung che riporta a Milano un'opera assente da 19 anni, preceduta dall'edizione del 1955 firmata da Carlo Maria Giulini, maestro di Chung.

In questa scenografia in bianco e nero, spiccano i costumi coloratissimi ideati dagli stilisti austriaci Susanne Bisovsky e Josef Gerger. Sono partiti dal fatto che la vicenda si svolge in Boemia. Vedremo costumi della tradizione dell'Europa centrale e dell'Est, di foggia slava. Scozzese a volontà per costumi maschili. La tinta predominante sarà il rosso. Si tratta di 130 capi di sartoria, pare che le coriste se ne siano innamorate. Un lavoro ciclopico, spiegano gli stilisti avvezzi alle passerelle ma poco al teatro d'opera, a parte un'incursione a Salisburgo.

Personaggi lussuosamente vestiti, a un certo punto diventeranno diabolici: indossando maschere, ma anche teschi.

Di lingua tedesca il cast. A partire da Michael Konig, nei panni di Max. Gunter Groissbock darà voce a Kaspar. Julia Kleiter sarà Agathe e Eva Liebau (che tornerà alla Scala in Fidelio) Annchen.

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