Il teatro riparte dal mito E Polifemo sfida Amleto

Al Parenti successo per il nuovo spettacolo di Emma Dante una paradossale intervista (in siciliano) a Ulisse e al Ciclope

Il teatro riparte dal mito E Polifemo sfida Amleto

La stagione del grande teatro è ufficialmente ripartita e, in attesa del debutto di Hamlet che debutterà al Piccolo con la compagnia iraniana Quantum Theater Group, il mito è già in scena (si fa per dire) al Franco Parenti con l'ultima opera di Emma Dante. Provocatorio, ironico e spiazzante, strappa gli applausi «Io, Nessuno e Polifemo», lo spettacolo scritto e diretto dalla brava regista palermitana, interprete delle sonorità arcaiche della lingua dialettale siciliana. Lo spettacolo è invece interpretato in italiano dalla stessa Dante, qui anche attrice, nel ruolo dell'intervistatrice di pirandelliana memoria che dà «impossibile» vita a due icone del teatro classico di tutti i tempi: Polifemo, il Ciclope dall'unico occhio (il vulcanico Salvatore D'Onofrio) e il borioso Ulisse (il convincente Carmine Maringola), che per l'occasione si esprimono in un verace napoletano, che si trasforma in siciliano quando il gigante aprirà il suo cuore ancora dolente, all'intervistatrice («Sono ormai pietra, roccia e voi mi abitate»). Il testo mette in scena il punto di vista inedito del gigante, profanato da Ulisse e dai suoi compagni, nella placida solitudine di pastore nella sua isola, verde e selvaggia. Tre impeccabili danzatrici in reggiseno e culotte, aprono la scena con movenze disarticolate che rimandano alla umanità da marionette dei compagni di Ulisse, smembrati e poi divorati da Polifemo, gigante antropofago, inferocito per l'arroganza di Ulisse/Nessuno. In giacca e pantaloni neri e camicia bianca (la stessa mise anche per Polifemo e Nessuno), Emma Dante entra in scena e provocatoriamente chiede: «C'è nessuno?» Le ire di Polifemo non si fanno attendere, ed eccolo che arriva infuriato e al nome di Nessuno, urla e si scompone, ancora memore del dolore e della beffa inflitta dal navigatore greco. La lingua del gigante è il napoletano, quale lingua parlare per l'inganno, e quale lingua usare per lo spettacolo che è finzione? Ma la regista/Io, lo redarguisce che lei ai suoi attori chiede la verità della vita vissuta e che il teatro per lei è quello di Carmelo Bene, un teatro che si interroga e che interroga il passato. Polifemo in un fiume di parole, piene di disprezzo per l'eroe cantato dalla storia, continua a sbracciarsi, ma ecco che irrompe in scena Ulisse, che sulle note di una musica rock suonata dal vivo, irride lo stupito Polifemo e lo provoca con la sua prestanza fisica e il suo essere sciupafemmine: muse e dee volevano bloccare la sua ansia di libertà con la promessa dell'immortalità e della perenne giovinezza. E per questo, innamorato della sua Penelope, Ulisse torna in patria e qui la bellissima scena, di grande impatto visivo, nella sua ripetitività cadenzata che segna il ritmo del dolore e dell'abbraccio tra Ulisse e la sua sposa, si tinge di felicità e disperazione: Penelope e le sue ancelle, sotto una tela infinita che si trasforma in abito nuziale, rinnovano per sempre e all'infinito, il dolore di un abbandono senza tempo. Mentre lo spettacolo si snoda davanti al pubblico e si avvia alla fine, la riflessione porta ad un teatro che riannoda un mondo classico arcaico e violento, alla modernità.

E il sipario si chiude, con già nella memoria dello spettatore lo sguardo del Ciclope ferito, che privo di libertà, ma forte del ricordo del suo eden, corre felice con le sue pecore di fronte al mare arruffato e profumato di Sicilia.

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