No, nell'epoca contemporanea della cancel culture e dell'ossessione per l'identità una regista bianca e occidentale non può permettersi di girare un film sul mondo islamico e, in particolare, di come l'islamismo radicale e il terrorismo facciano breccia nelle menti degli uomini. O meglio, lo può fare, ma alla prima accusa di "islamofobia", la pellicola viene boicottata e "cancellata". È esattamente ciò che è successo al film-documentario "Jihad Rehab" di Meg Smaker. Il suo documentario, come riporta il New York Times, era incentrato su quattro ex detenuti di Guantanamo inviati in un centro di riabilitazione in Arabia Saudita, sull'attrazione giovanile per Al Qaeda e per i talebani, sulle torture subite e altri temi di grandissima attualità e importanza dal momento che il terrorismo islamista è tutt'altro che scomparso dai radar. Le riprese sono durate 16 lunghi mesi e la pellicola è stata subito promossa dalla stampa liberal. Il Guardian ha scritto che questo "è un film per persone intelligenti che cercano di mettere alla prova i loro preconcetti", mentre Variety ha sottolineato come la pellicola sembri "un miracolo e un atto interrogativo di sfida". Recensioni entusiastiche che hanno portato la regista a essere invitata con il suo film al Sundance Festival 2022, una delle vetrine cinematografiche più prestigiose al mondo.
La rivolta dei registi arabi
Tutto bellissimo, fino a quando alcuni registi arabi e musulmani hanno iniziato ad accusare Smaker di "islamofobia" e "propaganda americana". Alcuni, riferisce il Nyt, hanno addirittura affermato che una donna bianca non può permettersi di raccontare la vita degli uomini arabi. Sostengono che Smaker sia l'ennesima documentarista bianca a raccontare la storia dei musulmani attraverso la lente della guerra al terrorismo. Questi documentaristi, dicono, guardano le cose con il loro "sguardo bianco e occidentale" e affermano di filmare le vittime con empatia. Assia Boondaoui, una regista islamica, ha duramente criticato il film sulla rivista Documentary. "Vedere la mia lingua e le terre d'origine della gente nella mia comunità utilizzate come sfondo per raccontare il salvatore bianco è nauseante", ha scritto.
E così, chi prima incensava il film, ha subito ritrattato. Abigail Disney, nipote di Walt Disney, produttrice esecutiva di "Jihad Rehab" - che aveva definito "davvero geniale" il film in un'e-mail inviata alla regista - lo ha pubblicamente sconfessato dopo le critiche, pubblicando una sconcertante lettera aperta inviata ai registi islamici che si erano lamentati della pellicola. "Innanzitutto mi dispiace davvero" ha scritto la nipote di Walt Disney nella lettera. "Un film di cui sono stata produttore esecutivo, Jihad Rehab, è arrivato come un camion carico di odio su persone che amo e rispetto sinceramente. So che ha creato un dolore profondo e inutile e per questo mi assumo la responsabilità e mi scuso. Mi impegno ad andare avanti meglio. Sono molto impegnata a non creare più dolore, se non altro per caso o per ignoranza".
La cancel culture si abbatte sulla pellicola
Da quel momento in poi il prezioso documentario di Smaker è stato "cancellato". Festival di spicco hanno annullato gli inviti e critici nel mondo dei documentari si sono rivolti ai social media e hanno fatto pressioni su investitori, consulenti, affinché ritirassero i nomi dai crediti. "Nella mia ingenuità, continuavo a pensare che le persone avrebbero rimosso la rabbia e si sarebbero rese conto che questo film non era quello che dicevano", ha spiegato Smaker. "Sto cercando di raccontare una storia autentica che molti americani potrebbero non aver sentito". Questa vicenda sdogana il pensiero folle, basato sulla politica dell'identità, che solo un musulmano possa raccontare il mondo islamico e una donna bianca, occidentale, non lo possa fare.
Questo è l'esatto contrario del concetto di società: è, semmai, voler dividere la società in tante piccole tribù in competizione fra loro e una manifestazione di subalternità culturale del patinato mondo del cinema e dell'arte mainstream, al mondo islamico.
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