Obama va al Pentagono per fare il punto sulla lotta all'Isis

Analisi e riflessioni di una strategia che fino ad ora ha prodotto soltanto stupori, fughe e uno Stato Islamico ogni giorno più forte

Obama va al Pentagono per fare il punto sulla lotta all'Isis

E’ di poche ore fa la notizia che l’Isis punta su Tripoli. Non quella in Libia però, che comunque rimane nei desideri di ogni jihadista nord africano, ma quella libanese. La città divisa come in molti la chiamano: da una parte i musulmani alawiti, fedeli stretti di Bashar Al-Assad e dall’altra i sunniti, moltissimi dei quali non nascondono di essere sudditi del Califfo al-Baghdadi. La città da sempre conosce i drammi della guerra, ma da quando è esplosa la crisi siriana, ha visto acutizzarsi senza precedenti i combattimenti tra i due quartieri. Oggi l’Isis è qui che vuole arrivare. I motivi apparenti, ma non per questo poco attendibili, sono quelli rivelati Ahmed Mikati, il “colonello” fedele al Califfato, oggi nelle mani delle forze di sicurezza libanesi. Le parole del soldato, pubblicate oggi su La Stampa, in un articolo di Maurizio Molinari, lasciano intendere un concetto molto semplice: l’Isis ha ancora bisogno di espandersi, verso ovest, più a ovest possibile, fino al mare. I motivi e le conseguenze di questo scenario sono facilmente immaginabili.

Ma a fare discutere è la decisione di Obama di fare visita al Pentagono. Una rara visita quella del Presidente americano, il quale evidentemente ha in mente un piano diverso per l’Iraq e la Siria, o molto più semplicemente ha bisogno di tirare le fila di una strategia che fino ad ora ha prodotto risultati discutibili e in alcuni casi addirittura controproducenti. Ma quali sono i punti cardine del disegno militare di Obama contro lo Stato Islamico?

1) “Nessun soldato americano metterà piede in Iraq per combattere l’Isis”. Era il 17 settembre del 2014 quando il presidente americano prometteva di non voler inviare militari sul campo per combattere i terroristi. L’unica strategia messa in atto da allora è stata quella di bombardare con i droni le basi militari e i mezzi del Califfato. Tirando le somme la verità è che lo Stato Islamico continua a conquistare territori, ma soprattutto fa affari: vende petrolio ed opere d’arti e non di rado anche esseri umani nel mercato sommerso e svuota banche lungo il cammino di conquista. I numeri parlano chiaro, l’Isis si arricchisce ogni giorno di più, ma non solo in termini finanziari. Infatti come riportato dal giornalista tedesco Juergen Todenhoefer, unico reporter “embedded” nelle file dello Stato Islamico, per ogni jihadista che muore in combattimento ne arrivano altri dieci. Todenhofer parla di uffici di reclutamento a Raqqa e Mosul che quotidianamente vengono presi d’assalto da volontari che desiderano lottare per la causa islamica. Di contro a combattere sul campo ci sono soltanto curdi e sciiti, oltre che i governativi siriani, e di fatti sono gli unici che possono vantare alcune vittorie contro i terroristi.

2) “A combattere l’Isis sarà una coalizione internazionale”. Era il 10 settembre del 2014. Obama annunciava il coinvolgimento di più di venti paesi nella guerra contro il terrorismo in Siria e in Iraq. La “coalizione internazionale” molto voluta dal Presidente americano ha però fino ad ora soltanto prodotto lo stupore nelle menti di quelli che spesso si sono chiesti se paesi come il Qatar, la Turchia e l’Arabia Saudita fossero da annoverare tra gli amici o tra i nemici. Sono diversi infatti gli indizi, in alcuni casi prove, che alcuni paesi “alleati” stiano in realtà facendo il doppio gioco. La Turchia ad esempio è stata beccata più volte a lasciare passare i terroristi nei propri territori a nord di Kobane: i jihadisti in numerosi video pubblicati su internet vengono ripresi a sparare dall’altra parte della linea di confine. Meglio i terroristi che i curdi, avranno pensato gli uomini forti al governo turco. Poi c'è L’Arabia Saudita: uno dei paesi a fornire più uomini allo Stato Islamico,a ma considerato da Obama un paese strategico. L’ondata di uomini e donne in partenza da Riyadh non sembra arrestarsi e nessuno da quelle parti intende spiegarci come mai, né nessuno sembra volerglielo chiedere. Infine il Qatar: uno dei paesi ad avere maggiormente finanziato l’Isis sul nascere. L’idea del piccolissimo emirato era probabilmente quella di dare vita ad un’organizzazione islamica in funzione anti Assad in Siria. Ora se Doha avesse capito o meno la portata del rischio di questa operazione, non è dato sapersi, né è dato sapersi se fosse in buona o in mala fede. Ciò che però sicuramente sappiamo è che il Qatar fino ad oggi tramite un sistema di fondazioni ed Ong, ha fornito decine di milioni di dollari allo Stato Islamico.

3) “Invieremo in Iraq altri 450 uomini per addestrare i soldati iracheni”. Era lo scorso 10 giugno e Obama annunciava l’invio di ulteriori uomini per aiutare le truppe irachene a fronteggiare l’Isis. Anche questa strategia sembra però avere prodotto fino ad oggi soltanto grandi fughe: quelle dei militari iracheni davanti all’arrivo imminente dei terroristi. E’ successo a Mosul, a Ramadi, a sud di Kirkuk e a Falluja. Migliaia di militari hanno letteralmente buttato via le divise e lasciato armi e mezzi ai terroristi in arrivo e per di più di buona fattura, se si considera che quasi tutti gli armamenti sono marchiati Usa. I combattenti curdi stessi hanno raccontato più volte a il Giornale la fuga dei militari iracheni (addestrati dagli americani) per la paura di combattere contro l’Isis.

Intanto dalla riunione al Pentagono

non sono trapelate indiscrezioni. Non sappiamo quale sarà e se ci sarà un cambio di marcia nella lotta al terrorismo islamico. Nel frattempo lo Stato Islamico punta al mare e nessuno sembra davvero avere voglia di fermarlo.

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