Mosca ammette: «Sul terrorismo abbiamo sbagliato»

Dopo la strage una grande voglia di vendetta, ma anche una inedita ammissione di colpa. Ad interpretare il doppio ruolo ci pensa come sempre la coppia al comando. La parte del vendicatore duro e spietato spetta di diritto al premier Vladimir Putin prontissimo, dopo il silenzio di lunedì, a promettere l’«inevitabile rappresaglia» destinata a colpire gli autori di un crimine definito «abominevole per la sua crudeltà e la sua mancanza di senso». La parte dello statista riflessivo tocca così a Dmitry Medvedev. Pur ricordando la necessità di liquidare i «banditi» responsabili dell’attacco terroristico all’aeroporto di Mosca, il presidente non esita a mettere sotto accusa i responsabili della sicurezza aeroportuale. «Quanto emerso dalla scena del crimine disegna un quadro di pura anarchia – tuona il presidente – la gente passava ovunque e le restrizioni e i controlli anche a voler essere generosi erano soltanto parziali».
Neppure le prime indagini condotte sulla scena del crimine sembrano brillare per efficienza e linearità. Lunedì sera gli investigatori davano per certo il ritrovamento della testa del kamikaze maschio responsabile della strage. Ieri mattina invece si puntava sul nuovo exploit delle “vedove nere”, le donne cecene pronte a trasformarsi in shadika (martiri islamici) per vendicare l’uccisioni di padri, mariti e figli. Ieri sera la testa mozzata ritornava grande protagonista e gli inquirenti la esibivano in Tv rilanciando la tesi dell’unico kamikaze di sesso maschile. Una versione che potrebbe coprire le inefficienze dei servizi segreti incapaci di prevenire la strage nonostante la morte il 31 dicembre di una shadika dilaniata dall’esplosione accidentale del suo giubbotto.
Questa atmosfera di confusa approssimazione non aiuta la coppia Putin–Medvedev a cancellare l’impressione che i 35 morti e 150 feriti dell’aeroporto di Domodedovo siano la conseguenza di una superficialità di vecchia data. Dallo stesso aeroporto di Domodedovo si era imbarcata nel 2004 una delle due kamikaze cecene che nel 2004 si fecero esplodere a bordo di due aerei in volo provocando la morte di 89 persone. E il pugno di ferro di Putin non è certo la ricetta risolutiva. Presidente, servizi di sicurezza e generali la applicano senza soluzione di continuità dall’autunno 1999. Da allora la Cecenia è stata bombardata distrutta e ricostruita da capo. Da allora militanti e capi della rivolta sono stati massacrati, torturati ed incarcerati senza pietà. Eppure la “pax russa”, imposta affidando il controllo della Cecenia ad un guerrigliero rinnegato e privo di scrupoli come Razman Kadyrov, non ha cancellato il terrorismo. Anzi, a ben vedere ha contribuito ad avvicinare quella che inizialmente era un’insurrezione etnico nazionalista al fanatismo di Al Qaida spingendo i guerriglieri ceceni ad accettare i finanziamenti dei gruppi wahabiti e l’ospitalità nei campi della Jihad.
I pochissimi insorti terroristi rimasti sul campo sono oggi, nonostante la loro inconsistenza militare, più difficili da individuare e da infiltrare. Il 46enne veterano Doku Umarov, l’autoproclamatosi “emiro di Cecenia” sopravvissuto a innumerevoli imboscate e agguati delle forze di sicurezza, continua a sfruttare al meglio la conoscenza del territorio e l’ancora diffuso sostegno popolare per mettere a segno i suoi colpi. L’attentato di lunedì è arrivato nonostante le divisioni che alla fine della scorsa estate avevano spinto Umarov a lasciare la guida delle operazioni al proprio braccio destro Aslambek Vadalov e a un gruppo di militanti più giovani.

Ma il vecchio capo, accusato di adottare strategie eccessivamente brutali anche per i disumani canoni caucasici, ci ha subito ripensato. E ora combatte su due fronti, da una parte contro il nemico russo e dall’altra contro i giovani leoni allevati nella sua stessa tana.

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