Moscovici: "Stranieri integrati? Sì se puntiamo sui loro bambini"

Lo psicologo sfuggito a nazisti e comunisti: "Le democrazie europee hanno bisogno di un'identità forte: emergerà col tempo"

Moscovici: "Stranieri integrati? Sì se puntiamo sui loro bambini"

Prima, viene l’uomo. In parte perché la materia di cui il professor Serge Moscovici si occupa - la psicologia sociale - non è propriamente acqua fresca. Ma soprattutto in quanto basta una scorsa alla sterminata vicenda umana e professionale di questo gagliardo ottantacinquenne, uno dei quattro vincitori della 35ª edizione del Premio Nonino, per capire tanto di lui e del suo lavoro. Tanto, senza la presunzione del tutto. Certo, l’homme, d’abord. È infatti negli occhi di un Grande Europeo come lui, ridenti pur dopo aver tanto visto - anche tanto di brutto - che si può leggere la biografia di un intero Continente. Nato in Romania e perseguitato in quanto ebreo prima dal regime filo-hitleriano di Ion Antonescu e poi, per lo stesso motivo, da quell’Armata Rossa che si era illuso fosse arrivata a liberare il suo Paese, Moscovici era fuggito nel ’48, arrivando a Parigi con un solo franco in tasca. Studente di psicologia alla Sorbona per «nutrirsi» e impiegato in un’industria per mangiare, si sarebbe però scoperto culturalmente apolide anche lì. «Per noi, gente di sinistra, ma che aveva abbandonato il comunismo, in quei primi anni è stato come vivere tra l’incudine e il martello». Malvisti da un lato dagli esuli romeni più estremisti, che li sospettavano di essere «talpe comuniste al soldo di Mosca», e dall’altro dalla gauche accademica francese, che li vedeva «come fascisti».

Professore, sembra che lei abbia vissuto ben più di una sola vita, ma almeno tre o quattro. Pensa che ciò sia stato fondamentale per forgiare tanto l’uomo quanto lo studioso?
«Certo, perché la vita è la somma delle nostre esperienze, che a loro volta vengono contraddette da altre esperienze. Di altri. Ed è proprio così che la nostra esperienza diventa un movimento sociale».

Mi permetta di banalizzare i termini. Lei è di fatto lo psicologo della società, la quale non può rispondere come un individuo alle sue domande. È lei che deve intuirne risposte. O sbaglio?
«È vero, per fare il mio lavoro non ho bisogno del divanetto dello psicologo. Quello che devo fare è leggere tanto, i più disparati documenti che mi parlano di dove sta andando la società. Poi, io ho almeno tre fonti principali a cui attingere per trovare le risposte che cerco».

Ovvero, professore?
«La prima è l’insieme di ciò di cui parlavamo in precedenza: dell’esperienza personale, dell’osservazione della vita, di quello che hai raccolto. A questo aggiungo la capacità di guardare, in modo da avere una discussione intellettuale proficua con gente che ha avuto altre esperienze. Infine, terza risorsa, ci metto il confronto continuo con artisti, scienziati delle discipline politico-sociali, economisti, pensatori in generale. Di oggi, come del passato. Perché devi leggere e rileggere per esempio William Shakespeare, uomo di ieri, per trovare risposte valide alle tue domande attuali».

Lei è noto per la sua teoria delle Rappresentazioni sociali, o teorie del senso comune, usate per esprimere le conoscenze all’interno di una società o dei gruppi che la compongono...
«Se mi consente la correggo: non vengono usate, perché non sono un metodo. Vengono invece create. E possono riguardare la religione, la morale, la legge, la scienza... tutto».

Non ha avuto timore, da intellettuale, a usare un’espressione come «senso comune», con cui di solito definiamo qualcosa di basso livello?
«No, perché così sbagliamo. Abbiamo infatti dimenticato il valore di quell’espressione. Abbiamo dimenticato che nel XVIII secolo il common sense fu il punto di partenza della maggior parte delle teorie scientifiche e filosofiche. Poi, da Galileo in poi, iniziò la matematicizzazione della conoscenza, che ha negato il valore del senso comune e insieme ad esso della nostra memoria e dell’immaginazione. Ma ci sono stati grandi pensatori, come il vostro Giambattista Vico, che ne hanno invece teorizzato l’universalità».

Lei dice inoltre che le Rappresentazioni sociali «danno corpo alle idee», collegando il sapere e le conoscenze alla vita concreta. Mi fa degli esempi? Appunto, concreti?
«Le rispondo facendole piuttosto dei nomi di uomini che hanno dato corpo alle idee. Pensi per esempio come e quanto dei pensatori come Charles Darwin o Karl Marx, al di là della condivisione delle loro idee, siano diventati importanti, imprescindibili per chiunque. E a loro, aggiungerei Albert Einstein e Gandhi».

Perché il Mahatma?
«Perché ha dimostrato, direi meglio ci ha insegnato, che un grande cambiamento sociale è possibile anche senza ricorso alla violenza. In questo modo lui ha dato vita a quella che ancor oggi è la più grande democrazia del mondo. E questo è quanto è successo anche in Europa, più di recente, alla caduta dell’ex blocco sovietico. Una rivoluzione di velluto, senza morti, ma che ha cambiato volto al mondo».

Visto che parliamo di mondo, quali pensa siano le maggiori differenze tra le due più grandi società evolute, l’europea e l’americana?
«Domanda difficile, molto difficile. Direi comunque che la società europea è stata plasmata e influenzata fortemente dalla presenza delle chiese e delle religioni, mentre quella americana è stata plasmata da...».

Forse dai soldi, professore?
«No, no (ride, ndr) quelli sono stati e sono importanti dovunque, anche in Italia. Direi piuttosto che ciò che ha influenzato e permeato di più la società americana è il concetto di rischio. Oltre al fatto di essere sempre stata, fin dall’inizio, il melting pot di razze che conosciamo».

Non corre il rischio di diventarlo anche l’Europa di oggi, con le grandi migrazioni in atto dal Terzo Mondo?
«No, noi non lo saremo mai un melting pot. Perché a differenza di quanto accadde all’epoca in America, la gente che giunge oggi in Europa arriva in nazioni, le nostre, già formate come tali. Per questo credo nel prossimo futuro ci sarà meno tensione di quanta noi oggi possiamo pensare o temere. Per almeno due motivi. Il primo sono i bambini dei nuovi arrivati, bene prezioso soprattutto in Paesi pur cattolicissimi come Spagna e Italia, che invece hanno smesso di farli nascere. E il secondo motivo sta nel nostro sistema democratico, diffuso ormai in tutta Europa e diventato sistema condiviso, ricercato e inseguito anche altrove. Un sistema in cui la gente crede, ha fede. Per questo penso che nessun autoritarismo portato dall’esterno potrà mai più attecchire nel nostro Continente».

E il problema religioso?
«Mi scusi, ma questo approccio di avere un problema e di volergli trovare di conseguenza una soluzione, è qualcosa che va

bene in un laboratorio, non in una società, non con le vite degli uomini. Per fortuna, nel processo sociale le cose cambiano da sole e noi non ci rendiamo nemmeno conto di quando cambiano. E le dirò, io sono ottimista».

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