"C'ero io alla Spiotta, ho visto quello che è successo". Parla l'ex br Azzolini

Dopo 50 anni, ha un nome il terrorista rosso fuggito dal luogo di una delle prime tragedie degli anni di piombo

"C'ero io alla Spiotta, ho visto quello che è successo". Parla l'ex br Azzolini
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A cinquant'anni di distanza, ha un nome il brigatista rosso che riuscì a scappare dalla cascina dove si era appena consumato una delle prime, sanguinose tragedie degli anni di piombo. Tra i carabinieri arrivati nel giugno 1975 a liberare l'industriale Vallarino Gancia, sequestrato pochi giorni prima dalle nascenti Br, e i terroristi che custodivano l'ostaggio in un casale nelle campagne di Alessandria si scatenò un conflitto a fuoco al termine del quale rimasero sul terreno morti un sottufficiale dell'Arma e Margherita Cagol, fondatrice delle Brigate rosse insieme al marito Renato Curcio; un ufficiale dei carabinieri rimase mutilato. Un secondo brigatista riuscì a fuggire, allentandosi nella boscaglia.

Azzolini

Oggi, nell'aula della corte d'assise, un uomo ormai anziano dice: quel brigatista ero io. È Lauro Azzolini, emiliano di Reggio, uno del gruppo storico delle Br, autore tra l'altro della gambizzazione del direttore del Giornale, Indro Montanelli. Che, a mezzo secolo di distanza, è stato messo sotto processo per sequestro e omicidio: ad accusarlo, le sue impronte sul documento interno alle Br che ricostruiva a uso della direzione strategica il disastroso esito del sequestro di autofinanziamento.
Oggi Azzolini confessa. In un drammatico documento che il Giornale è in grado di pubblicare per intero, Azzolini - che finora aveva sempre taciuto - sceglie di ammettere le sue responsabilità: "Prima che questo processo abbia inizio, e prima che lo facciano altri, ho deciso di raccontare quello che quel giorno è successo. Perché sono l'unico che ha visto quello che è successo davvero".

Il sequestro, dice, doveva finire in pochi giorni senza danni fisici per l'ostaggio, ma l'arresto il giorno stesso di un brigatista fece precipitare la situazione "a causa della nostra impreparazione".
"Mara e io avremmo dovuto controllare a turno l'unico viottolo di accesso alla cascina ma di improvviso sentimmo dei colpi forti alla porta e guardando dalla finestra ci cadde il mondo addosso e ci prese il panico". Lui e la Cagol lanciarono due bombe a mano contro i carabinieri "senza mirare": ma una delle bombe staccò di netto un braccio al tenente Rocca. A quel punto i carabinieri aprirono il fuoco. "Rispondemmo con qualche colpo nel caos di una frazione di secondi". Poi, dice ancora Azzolini, salimmo in auto ma ci trovammo la strada bloccata dal mezzo dei carabinieri. "Vi fu la resa nostra. Uscito dall'auto mi affiancai a Mara che era già sul prato. Notai che sanguinava da un braccio, le chiesi se era ferita. Mi disse di sì ma che non era niente e che se c'era l'occasione di tentare ancora di fuggire e risposi che avevo ancora una srcm (una bomba a mano, ndr)".

A quel punto, Azzolini dice di essere fuggito verso il bosco. "L'ultima immagine che ho di Mara, che non dimenticherò mai, è di lei ancora viva che si era arresa con entrambe le braccia alzate, disarmata, e urlava di non sparare". In sostanza, secondo Azzolini, la Cagol sarebbe stata uccisa a sangue freddo al termine dello scontro a fuoco: una ipotesi che era stata avanzata già nel corso delle prime indagini, ma che non aveva trovato riscontri.


Anche se non dice di avere ucciso personalmente il maresciallo D'Alfonso, Azzolini sa di prendersi la responsabilità di un reato da ergastolo, perché l'omicidio non si prescrive mai: a meno che non gli vengano concesse le attenuanti generiche, che la sua scelta di confessare potrebbe convincere i giudici a concedergli. Ma il tono, drammatico, che ieri legge in aula sembra figlio della volontà di chiarire anche davanti a se stesso, con sincerità, quel giorno terribile di cinquant'anni fa.

Documento Azzolini 1

Documento Azzolini 2

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