«Ne morivano di più nei ’70. Senza guerra»

«Ai tempi della guerra fredda pilotavo i caccia ed ogni gruppo di volo aveva un caduto all’anno, ma quelle morti non facevano scalpore. Erano un prezzo da pagare. Oggi la morte di un soldato in operazione è un evento mediatico di grande importanza, ma si considerano fatalità le morti sul lavoro o gli incidenti stradali. Questi ultimi causano migliaia di morti, ma non sento mai un politico chiedere la chiusura delle autostrade». Sono passate poche ore dalla morte del caporal maggiore Davide Tobini, 41esimo soldato italiano caduto in Afghanistan, ma il generale Vincenzo Camporini, ex capo di Stato maggiore della difesa oggi consulente militare del ministro degli Esteri, non nasconde - in un’intervista a Il Giornale - la perplessità per le polemiche della politica sulla difficile questione afghana.
«Quelli che perdiamo sono sicuramente ragazzi splendidi. Agli occhi dell’opinione pubblica sono la parte più efficiente, nobile e generosa della nazione, ma da qui a celebrare funerali di stato per ogni caduto in operazione ce ne passa. I politici devono imporsi una rivoluzione culturale. Devono prima comprendere loro stessi e poi spiegare all’opinione pubblica perché siamo impegnati in missioni come quella afghana. In Gran Bretagna e Francia è scontato, in Italia non ancora».
Perché la politica è così inadeguata?
«Perché non sa darsi risposte chiare. Quando il segretario alla difesa statunitense ci batte la mano sulle spalle e ci dice “bravi” i nostri politici sono soddisfatti. Sono ragazzini che aspettano l’elogio dal maestro invece di trattare alla pari con i compagni più forti. Questo ci rende incapaci di comprendere cosa significhi non assumersi il proprio ruolo».
Cosa significa?
«Un paese deve saper contribuire alla stabilità internazionale. Chiudersi equivale a metter la testa sotto la sabbia e rinviare il problema. Dobbiamo capire che se non andiamo noi da loro verranno loro da noi».
Mentre i morti aumentano la Casa Bianca annuncia il ritiro nel 2014. Combattere con il cronometro in mano non è assurdo?
«La guerra con il cronometro in mano non si può fare. La pianificazione richiede delle date, ma se i risultati non sono quelli previsti bisogna esser pronti a cambiarle. Un’operazione militare si pianifica con il calendario, ma è impensabile trasformare quei tempi in scadenze politiche».
A molti l’Afghanistan sembra una tela di Penelope.
«Il disagio è la conseguenza degli obbiettivi assolutamente irrealizzabili che ci siamo dati nel 2001. Non fosse per quell’eccesso d’ambizione iniziale oggi diremmo d’ aver raggiunto risultati straordinari».
La cosiddetta «transizione» avviata anche nel settore italiano consentirà un rientro più rapido?
«Anche qui c’è un’insufficiente informazione. Trasferire la responsabilità della sicurezza ai militari e ai poliziotti afghani addestrati dai contingenti della Nato, ma non abituati a gestire il teatro, è un’operazione delicata e le bande armate presenti sul territorio tenteranno di approfittarne. Invece di ridurre l’entità delle nostre forze bisognerà farle gravitare dove la situazione non è stabilizzata. E questo aumenterà le possibilità di scontri armati».
Quando potremo andarcene?
«In Kosovo nel 1999 la situazione era molto meno critica eppure siamo ancora lì».
Chi vorrebbe il ritiro dice di voler proteggere i nostri soldati...
«I nostri soldati laggiù sono più consapevoli che mai della necessità dell’intervento. Sono lì perché lì ci sono i «cattivi». Se li portiamo a casa i cattivi non scompaiono».


È come la guerra a mafia e camorra?
«Se a Scampia o in Sicilia ci sono dei mariuoli possiamo intensificare la presenza dello stato rischiando gravi incidenti o arrenderci e lasciare che una parte del paese si trasformi in una repubblica criminale autogestita. In Afghanistan non fa differenza».

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