Nino D’Angelo: sono cambiato (ma non troppo)

Nino D’Angelo: sono cambiato (ma non troppo)

Galeotto è stato l’album So di Peter Gabriel, tanti anni fa. «Le sue contaminazioni, la sua complessità, mi hanno aperto gli occhi. Dal primo ascolto ho capito che era arrivato il momento di cambiare registro». Così Nino D’Angelo, che domani si esibirà al Brancaccio, ha messo via il caschetto da scugnizzo rubacuori ed è diventato un artista maturo. Nei temi trattati, innanzitutto: «Prima parlavo alle ragazzine che volevano innamorarsi, oggi mi piace raccontare il mio punto di vista su qualsiasi cosa, dalla politica al sociale». Nella musica proposta, contemporaneamente: «Ho sposato anche le sonorità etniche. Fuori dall’Italia ti fai ascoltare così, non con le parole».
E oggi?
«Oggi mi sento libero, persino di osare. Con questo spettacolo voglio portare il Sud al Nord, canto in città dove non mi esibisco spesso, come Torino e Milano. A Roma è diverso, dal Sistina all’Auditorium sono sempre stato accolto con grande entusiasmo. Altrove è meno semplice. Ed è bello, quasi affascinante, salire su quei palcoscenici con la canzone napoletana mentre l’Italia si disunisce».
Si riferisce al momento d’oro della Lega?
«La Lega fa il percorso opposto al mio. Sta avendo successo perché punta sul populismo, che trova con facilità terreni fertili dove attecchire».
Da giovane, a modo suo, anche lei faceva leva sul populismo.
«Da ragazzo volevo diventare ricco, aiutare la famiglia. Il mio obiettivo era vendere le canzoni, i discografici mi chiedevano sempre la stessa formula. Oggi scrivo quello che è dentro di me. Ma il processo è avvenuto con il tempo, è stata una metamorfosi. A 52 anni ho realizzato che si può sempre cambiare. Una parte del pubblico mi ha seguito, un’altra no».
Rinnega il suo passato?
«Lo ripercorro ogni sera: senza il mio passato non sarei dove sono oggi. In scaletta ci sono tutti i miei successi, a partire da Nu jeans e 'na maglietta, fino all’ultimo brano che ho portato a Sanremo, Jammo Ja».
Lo hanno definito il manifesto di un nuovo Sud.
«È una dedica senza vittimismo, un'esortazione a rimboccarsi le maniche. Il problema è che il Sud è una terra difficile perché ti trovi davanti due stati, uno legale e un altro illegale. E il male fa più notizia del bene. Ho voluto ribaltare questo concetto, far capire che c’è gente che vuole andare avanti ma spesso non ha i mezzi per riuscirci».
Alcuni suoi colleghi si sono fermati invece alle melodie popolari, alle canzoni d’amore. E con quelle hanno avuto successo ovunque.
«La formula l’ho inventata io, vent’anni fa. E funziona. La differenza è semplice: ci sono i cantanti di Napoli e ci sono quelli napoletani. Io appartengo a questa seconda categoria, senza bisogno di traduzioni. E senza più bisogno di strizzare l’occhio a nessuno: ho smesso di ghettizzarmi perché ho avuto l’opportunità di confrontarmi con tante altre realtà.

Non tutti hanno avuto questa occasione».
Che effetto le fa sapere che «Jammo Ja» è l’unico pezzo in dialetto a essere entrato nelle classifiche del download digitale?
«Mi fa capire che non sono l’unico a essere cambiato».

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