Obama si prepara al blitz israeliano contro Teheran

Allerta alle basi Usa in Medio Oriente. La Casa Bianca è contraria al raid, ma teme di non riuscire a fermare un colpo a sorpresa di Tel Aviv

Obama si prepara al blitz israeliano  contro Teheran

Israele si arma e l’America trema. A Washington lo chiamano il paradosso Iran. Quel che a parole suona come un grattacapo è in realtà un incubo strategico. Un incubo da cui nessuno al Pentagono o alla Casa Bianca sa come liberarsi. Israele, il miglior alleato mediorientale – la nazione a cui Washington non ha mai lesinato finanziamenti e forniture militari - non risponde più, si rifiuta di far sapere se e come intenda colpire l’Iran.
Il nervosismo americano nasce innanzitutto da alcune recenti dichiarazioni ufficiali dei vertici di Gerusalemme. «La sicurezza non si basa solo sulla capacita di difendersi, ma anche sulla capacità di attaccare», ha ricordato lo scorso 31 ottobre il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in un discorso alla Knesset. E il 5 novembre il presidente Shimon Peres ha aggiunto che l’ipotesi di un raid è «sempre più probabile».
La decisione iraniana di spostare tutti i laboratori per l’arricchimento dell’uranio in una base segreta scavata nel cuore di una montagna non contribuisce certo a rasserenare gli animi. La mossa iraniana, annunciata nei giorni scorsi, viene considerata una delle cosiddette «linee rosse» capaci di scatenare l’intervento dello Stato ebraico.
Per evitare sorprese Washington, secondo il Wall Street Journal, ha già messo a punto un piano d’emergenza per fronteggiare le conseguenze dell’intervento militare israeliano. Per comprendere le preoccupazioni americane basta dare un’occhiata ad una cartina geografica. Dopo un raid degli aerei con la stella di Davide, l’Iran potrebbe non solo colpire lo Stato ebraico utilizzando i missili di Hezbollah, ma anche attaccare le basi a stelle e strisce in Afghanistan o tenere nel mirino quelle in Bahrein, Kuwait e Arabia Saudita, oltre che lanciare una serie di attentati contro il personale civile americano in Irak, Paese sempre più instabile dove ancora ieri un kamikaze ha ucciso 53 sciiti.
Non più tardi di ieri la Suprema Guida iraniana Alì Khamenei ha attribuito agli americani la responsabilità per l’eliminazione di uno scienziato nucleare ucciso con tutta probabilità da sicari del Mossad. In caso di raid israeliano la reazione non sarebbe diversa. Anche perché questo garantirebbe una più vasta possibilità di rappresaglia. L'ambasciata e le altre sedi diplomatiche in Irak dove - dopo il ritiro militare - lavorano circa 15mila fra tra diplomatici, dipendenti federali e contractor sono, da questo punto di vista, gli obbiettivi più vulnerabili.
Proprio per questo il Pentagono ha inviato una seconda portaerei nel Golfo Persico e ha messo in stato d’allerta i 15mila militari dispiegati in Kuwait e considerati la principale forza di deterrenza nei confronti della Repubblica Islamica. Washington sta inoltre posizionando altri dispositivi militari e accelerando il trasferimento di armi e aerei ai principali alleati nella regione tra i quali gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita.


E mentre l’America si prepara al peggio, la diplomazia dello Stato ebraico si guarda bene dal tranquillizzarla. «La politica del nostro governo è far sì che tutte le opzioni restino sul tavolo. È cruciale – ha fatto sapere l’ambasciatore israeliano a Washington, Michel Oren - che Teheran prenda tutto questo molto seriamente».

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