Passi falsi, prudenza e timidezze: 20 giorni di errori

Meglio tardi che mai. L’Italia ha bussato e l’Europa alla fine ha risposto. Ma i venti giorni intercorsi tra il fermo della Enrica Lexie e la richiesta d’aiuto a Bruxelles sono solo uno dei tanti errori commessi dal nostro governo nella gestione della crisi con l’India.
La mattina del 16 febbraio, quando la Farnesina riceve il primo allerta, la partita appare già truccata. La polizia di Kochi oltre ad ammettere di aver usato l’inganno per far rientrare in porto la Enrica Lexie, dà per certo il coinvolgimento dei fucilieri di marina nell’uccisione di due pescatori. Per capire l’assurdità delle accuse basta confrontare il rapporto dei marò e la versione indiana. I nostri militari descrivono un attacco di pirati avvenuto alle 11.30 del mattino mentre la petroliera è in acque internazionali a oltre 30 miglia dalla costa indiana. La polizia di Kochi parla invece di un episodio avvenuto due ore più tardi. Ma se l’incontro della Enrica Lexie con i pirati e la sparatoria costata la vita ai pescatori sono casi distinti allora l’innocenza dei militari è lampante. Spetta agli indiani casomai dimostrare il contrario. Eppure la nostra diplomazia appare immediatamente titubante.
E quando gli indiani pretendono la consegna dei marò armi in pugno la reazione è del tutto inadeguata all’abnormità dell’abuso. Quella scarsa determinazione iniziale diventa la madre di tutte le debolezze. Per dimostrare la scorrettezza indiana basterebbe ricordare che due militari stranieri, e fino a prova contraria innocenti, vengono fermati senza esibire né i risultati dell’autopsia sulle vittime, né il calibro dei proiettili trovati sul St Anthony, né una traccia radar in grado di provare la presenza di petroliera e peschereccio. Invece di farsi sentire, invece di evidenziare a livello internazionale tutti gli abusi commessi da una nazione che pretende un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza Onu i nostri diplomatici si perdono nelle nebbie della giurisdizione. Tecnicamente l’argomento è perfetto. Il diritto internazionale sancisce che i delitti commessi a bordo di una nave in acque internazionali sono competenza del paese di bandiera. Ma in una partita truccata le regole valgono poco. La debolezza dell’argomentazione è ormai evidente. L’India ha già detto di non riconoscere l’immunità dei militari anti pirateria «perché l’accordo sui Vdp (Vessel Protection Detachement) non si applica a livello globale».
Tre righe per far piazza pulita di un caposaldo giuridico che poteva invece esser sfoderato qualora fosse emersa qualche prova ai danni dei marò.
Dal punto di vista politico l’errore più grave del governo è non capire che i due fucilieri stanno per trasformarsi in capri espiatori alla mercé della campagna elettorale dello Stato del Kerala. Permetterlo è un passo falso gravissimo per un esecutivo chiamato a risollevare non solo l’economia, ma anche il prestigio dell’Italia.
Ancor più gravi le sottovalutazioni del ministro degli esteri Giulio Terzi che invece di cancellare il previsto viaggio in India di fine febbraio accetta un umiliante confronto con il suo omologo indiano. Invece di perder tempo a Nuova Delhi sarebbe stato più proficuo avviare subito i motori della solidarietà internazionale rammentando agli alleati europei e a quelli della Nato l’impegno e i soldi profusi per le missioni anti pirateria Atlantide e Ocean Shield.


Per mettere una pezza a questa sequela di errori mercoledì il premier Mario Monti ha ricordato all’omologo indiano Manmohan Singh che l’atteggiamento del suo Paese «rischia di creare un pericoloso precedente in materia di missioni internazionali di pace e di contrasto alla pirateria». Come dire con i pirati rischiate di vedervela da soli. Il primo affondo «tecnicamente» perfetto dopo venti giorni di balletto incerto e timoroso.

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