Il pentito del doping: «Adesso starei zitto»

Cristiano Gatti

Adesso è un giovane ragazzo di 35 anni, che corre ancora in bicicletta per passione, come ha sempre sognato da bambino. Squadra piccola, gare piccole. È tutto quello che si può permettere, tutto quello che gli è rimasto, alla fine di una personalissima battaglia contro il doping. Dopo averlo assunto in dosi massicce per anni, ad un certo punto è finito sotto inchiesta, la più famosa delle inchieste italiane, contro il preparatore Michele Ferrari. Guardandosi allo specchio, quel giorno Filippo Simeoni ha capito che era giunto il momento di voltare pagina. Di rompere. Di cambiare. Da forzato della chimica a primo nemico della chimica. Ha raccontato tutto: fiale, dosaggi, richiami.
L'hanno definito pentito, anche se la definizione vale solo in termini nobili: pentitissimo delle proprie colpe, questo sì. Ma non pentito in senso giudiziario, perché non ha coinvolto altri nomi. Si è assunto le proprie responsabilità, ha pagato il giusto prezzo, ha ricominciato da capo. Purtroppo, non è andata come sperava.
Diversi anni dopo, lo ritroviamo ancora nelle malinconiche vesti del pentito. Però in modo tutto diverso: stavolta è pentito d'essersi pentito. E quest'ultima stagione di scandali doping non fa altro che acuire il disagio. Con molta gentilezza, forzando il silenzio che ultimamente si era imposto, Simeoni accetta comunque di parlarne.
Passano gli anni, ma siamo ancora tra le macerie.
«Ha vinto l'omertà. I pochi che hanno avuto il coraggio di raccontare come stavano le cose sono finiti emarginati».
Pensava di ritrovarsi a questo punto?
«Credevo che tanti scandali servissero almeno a incidere la piaga, a restituire un poco di credibilità allo sport».
Invece?
«Da due anni ho aperto un bar al paese. Il posto migliore per misurare la credibilità del ciclismo. La gente è nauseata. Ho avvertito un grande ritorno di passione per il Giro di Basso. È un bravo ragazzo, è forte, piace. Però subito dopo scoppia lo scandalo spagnolo. E adesso il Tour. La gente non ne può più. Ormai mi vergogno a dire che sono un ciclista».
Non è cambiato nulla, negli ultimi dieci anni?
«Ma sì, è accertato che le cose siano un poco migliorate. Certo, ci vorranno ancora anni. Adesso però posso garantire che ci sono corridori senza doping. Allora no, era un delirio...».
In che senso?
«Negli anni '90, usavamo tutti l'Epo. Senza limiti e senza controlli».
Adesso invece?
«Con la guerra che s'è creata, è molto più difficile doparsi. Siamo passati ad un doping d'élite, molto costoso. Tanti non se lo possono permettere. Guardate l'ultima inchiesta spagnola: i ciclisti pagavano dai 30mila ai 60mila euro l'anno solo al dottor Fuentes. Un gregario nemmeno se lo sogna. Servono il medico particolare e il preparatore aggiornato, che sanno di ormoni e lavoro sul sangue. Quanto e quando prendere, come smaltire. Cosa passa e cosa non passa ai controlli. Tutto molto sofisticato e costoso. È un doping per ricchi...».
Negli anni Novanta?
«Negli anni Novanta tutti prendevamo la stessa cosa, l'Epo. L'effetto era paradossale: non c'erano differenze. Si tornava alle gerarchie di natura. Pantani vinceva perché era un fenomeno. Gli altri prendevano quello che prendeva lui, non aveva vantaggi. Adesso no, adesso solo i più grossi possono permettersi il dottor Fuentes e l'emotrasfusione. Con dei risultati incredibili. Penso a Gutierrez, secondo al Giro. Lo conosco bene, ci ho corso per anni. Mai nella vita avrei detto che sarebbe andato forte in salita. Non è mai andato. Invece, all'ultimo Giro era subito dopo Basso. Miracoli».
Ma senza doping si può vincere?
«No. Tra due corridori di buon livello, quello che non usa doping non può battere quello che lo usa».
Non si può più credere ad alcun risultato, allora.
«No, fino a quando non avremo la certezza che si parte tutti alla pari. Guardate gli ultimi grandi Giri. Vuelta, Giro, Tour: tutti e tre i vincitori sono finiti nei guai per doping. Gli effetti sono devastanti: anche i giovani si convincono che non si possa arrivare senza doping. E poi il ruolo delle squadre. Alcune sono molto serie e severe. Prendiamo l'italiana Liquigas: so che fa le cose per bene. Però i risultati non arrivano. D'altronde, se sai già che sessanta corridori fanno emotrasfusione dal dottor Fuentes, come puoi pensare di raccogliere risultati?».
Ma si può fare ciclismo senza doping?
«Certo. Tanti dicono che cinque passi alpini nella stessa tappa obbligano a prendere sostanze. Ma non è vero. Si possono fare. Si andrà un po' più piano, ci saranno più cotte, i distacchi aumenteranno. Non è detto sia un ciclismo più brutto».
Nel frattempo, che si può fare subito?
«Sono d'accordo al cento per cento con Gianni Bugno, nella sua intervista di ieri al Giornale. Bisogna coinvolgere team-manager e medici negli scandali. Non esiste che mandino via il corridore e se ne lavino le mani. Devono risponderne. Guardiamo la Csc di Basso: prima del Tour si disfa del corridore, poi quasi vince con Sastre. Che importa, a loro? Bisogna cambiare. Ullrich è coinvolto? Si ferma anche la sua squadra, in attesa di chiarimenti. Allora vedi come i dirigenti cominciano a marcare stretti i corridori. Altro che non sapere mai nulla. Sono loro i primi ad incentivare il doping».
In che senso?
«Nel senso che dicono di combatterlo, ma poi aspettano i corridori al varco: chi non ha risultati, perde il lavoro. Non guardano se un atleta svolge la professione in modo serio. No, conta solo la vittoria. Chiaro che tutti, pur di trovare un posto, sono disposti a rischiare».
Sparirà mai il doping?
«Sparirà mai la disonestà? Certamente no, purtroppo. Però un conto è sapere che i controlli sono blandi e le squalifiche lievi, un altro è sapere che ti braccano e che puoi cambiare mestiere. Se mai nessuno ti presenta il conto, bruciato un dottor Fuentes si va subito a cercarne un altro».
C'è volontà di ripulire?
«C'è ancora troppa falsità. Alti dirigenti che parlano in un modo e fanno in un altro. E poi lo ripeto: l'omertà ha trionfato. Visto come sono finito io, chi si prende più la briga di parlare?».
Com'è finito lei?
«Corro per passione. Però pentirmi mi è costato carissimo. Non ho più trovato una grossa squadra, da anni non corro più il Giro d'Italia. Armstrong me l'ha giurata, dopo che l'ho querelato per avermi definito bugiardo: è persino venuto ad inseguirmi in una tappa anonima del Tour. La verità è che questa vicenda mi ha segnato».


Tornasse indietro?
«Confessando, alla fine ci ho rimesso tutto. Nel frattempo, vedo tanti corridori che nonostante l'evidenza ancora firmano ricchi contratti. È amaro dirlo, ma non posso nasconderlo: visto com'è andata, il vero pentimento è d'essermi pentito».
Cristiano Gatti

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