Di Pietro sconfitto: «Ma l’Unione la pagherà»

Laura Cesaretti

da Roma

Dimissioni da ministro, ora che il «patto scellerato» sull’indulto è passato trionfalmente anche al Senato? Non se ne parla neppure.
La spiegazione di Antonio Di Pietro è complessa, ma il senso è chiaro: «Sull’indulto il centrosinistra ha ceduto a un ricatto di Forza Italia, ma che da questo ricatto la Cdl voglia ottenere il vantaggio di una coalizione che si sfascia a me pare una furbata che non si può consentire». E lui non lo consentirà, ça va sans dire. Però reclama un vertice dell’Unione, «prima delle vacanze», per «ridefinire il programma giudiziario: il centrosinistra la smetta di fare provvedimenti per assicurare l'impunità ad alcuni potenti e cominci a farne per far funzionare la giustizia», dichiara. Clemente Mastella, titolare della Giustizia e grande vincitore della giornata, se la ride: «Di Pietro? Credo che sia a occuparsi dei suoi cantieri», ironizza. Giusto l’altro giorno l’aveva per l’appunto invitato a risolvere i problemi della Salerno-Reggio Calabria, che alla politica giudiziaria ci pensa lui.
E infatti ieri il ministro delle Infrastrutture non si è proprio visto, dalle parti di Palazzo Madama: era a Milano («forse in Procura... », motteggiava Mastella) a parlare di autostrada pedemontana. Fuori dal Senato è rimasto un manipolo di suoi fedelissimi, una ventina più le bandiere di Italia dei valori, a strillare «vergogna» e «vogliamo un dittatore» ai senatori. Dentro, l’opposizione del suo partito all’indulto si è afflosciata come un soufflé mal riuscito: i cinque esponenti di Idv si sono divisi e in due (De Gregorio e Franca Rame) hanno ritirato le firme dai 1.500 emendamenti presentati. De Gregorio, presidente della Commissione difesa di Palazzo Madama, si è anche alzato in aula per annunciare che non avrebbe seguito le indicazioni del suo leader: «Mi regolo con un personale atto di codardia: mi asterrò, per questo primo atto di cristiana umiltà che Giovanni Paolo II chiese al Parlamento». La «codardia», evidentemente, è stata quella di non spingersi fino a votare a favore.
E così, il paventato ostruzionismo dell’Italia dei valori non c’è stato: «Si sono dissolti, lasciando qui davanti quei poveri quattro gatti», sorride sollevato dopo il voto Giovanni Russo Spena, capo dei senatori di Rifondazione. «Non hanno nemmeno usato tutto il tempo che avevano a disposizione, altro che grande battaglia», infierisce il ds Gavino Angius.
Lui, Di Pietro, dice di «prendere atto» della sconfitta «con la serenità di chi ha fatto tutto il proprio dovere», e avverte: «è una scelta sbagliata di cui la maggioranza pagherà le conseguenze». E in verità la sua è un’opinione condivisa da una parte dell’Unione. Sono soprattutto i Ds, che ben conoscono gli umori forcaioli della propria base, a essere preoccupati: «Per questa cosa verremo massacrati, vedrete», gemeva a pochi minuti dal voto finale Massimo Villone, rivolto alla capogruppo Anna Finocchiaro. Cui ieri è toccato presiedere un’agitata riunione del gruppo dell’Ulivo, nella quale si sono manifestati molti dissensi e paure. Per l’impopolarità del provvedimento, per il metodo delle «larghe intese» che ai prodiani fa temere inquietanti sviluppi futuri, per la rottura dell’idillio con la magistratura militante. «Purtroppo c’è una larga fetta di opinione pubblica di sinistra che ama le manette», constata la bertinottiana Rina Gagliardi. In molti, a cominciare dal presidente della commissione Giustizia Cesare Salvi, hanno fatto sapere che avrebbero votato sì solo per disciplina di gruppo.

«Solo per il bene dell’Ulivo, visto che a maggioranza si è deciso di approvare la legge», dice la prodianissima Magistrelli. E anche Willer Bordon storce il naso: «Non sono un fan del carcere, ma non mi piace il patto di convenienza tra una parte del centrosinistra e la Cdl che sta dietro a quest’indulto», confida. Pensando ai Ds.

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