Da ormai un anno il tema dell'inflazione è tornato a dominare il dibattito per i danni che la sua impetuosa crescita sta provocando all'economia un po' ovunque. Per domarla, le banche centrali hanno avviato una politica monetaria restrittiva, in adesione al proprio mandato. Anche la Banca centrale europea ha proceduto, sebbene con colpevole ritardo (lo ha ammesso la stessa presidente Christine Lagarde), sia alzando il tasso di riferimento fino al 4,5% sia riducendo l'offerta di moneta. Curiosamente, la discussione si concentra però molto spesso solo sul costo del denaro.
L'obiettivo della Bce, come noto, è di mantenere un tasso di inflazione nel medio-lungo termine prossimo ma inferiore al 2 per cento. Un obbiettivo piuttosto ambizioso, che non ha una ratio scientifica ma che nel tempo è diventato riferimento condiviso, sebbene non da tutti. Va da sé che livelli superiori vanno combattuti ma, anche se non è così chiaro nei documenti fondativi della Bce, pure i livelli sensibilmente inferiori vanno evitati, perché la deflazione reca con sé danni alla società non certamente inferiori di quelli provocati dall'elevata inflazione, anche se di altra natura.
La tabella pubblicata in pagina - relativa all'Italia - evidenzia i tassi di inflazione mensili (colonna 2), quelli annuali calcolati in termini di somma dei tassi degli ultimi dodici mesi (colonna 3), una proiezione su base annuale del tasso mensile per ogni mese (colonna 4) e un dato medio delle inflazioni annuali proiettate degli ultimi tre mesi (colonna 5).
Ebbene, a ottobre il tasso di inflazione relativo ai 12 mesi precedenti è risultato a sorpresa pari all'1,69%, dunque decisamente entro i limiti dell'obiettivo che si è posta la Bce. Anzi, persino troppo al di sotto. A settembre eravamo però a quota 5,34% e ad agosto al 5,44%: tra pochi giorni, quando l'Istat renderà noto il dato definitivo di novembre, sapremo se la sorpresa di ottobre andrà considerata un'emozione di breve respiro oppure se il trend in calo è confermato. Sarebbe comunque troppo presto per ritenere l'inflazione rientrata? Anche se così potrebbe sembrare, per il modo come il dato è costruito la risposta è no.
Il motivo di questa discesa così repentina è spiegato dalla dinamica dei tassi di inflazione mensili registrata nell'ultimo anno: nei mesi più recenti essa è risultata decisamente bassa (colonna 3), e l'effetto dell'alta inflazione dei mesi più lontani è finalmente venuto meno a ottobre. Ciò perché il dato dell'inflazione annuale costruito sulla somma dei dati mensili degli ultimi dodici mesi è particolarmente distorcente in presenza di elevata variabilità mensile, come nel nostro caso. Se si ragiona su un tasso di inflazione che è motivato da una situazione anomala (il balzo dei prezzi dell'energia, ora in buona misura rientrato, è grandemente responsabile) e lontana nel tempo, è come se si guidasse guardando lo specchietto retrovisore: un paragone sempre più condiviso persino all'interno del board che siede all'Eurotower. Infatti, guardando alla colonna 4, che riporta il dato annuale come proiezione del dato mensile per 12 mesi, si trova un tasso di inflazione annualizzato sostanzialmente nella soglia-obiettivo della Bce praticamente da febbraio di quest'anno. Volendo comunque superare il rischio di dare troppo rilievo a un dato mensile, annualizzandolo si può utilizzare un altro indicatore, che è riportato nella colonna 5. Si tratta della media dei dati di inflazione annualizzata degli ultimi tre mesi, in modo da smussare eccessi e pure normalizzare il dato, ma al contempo di considerare solo i dati dell'ultimo trimestre senza il peso di valori non solo lontani nel tempo, ma anche inquinati da fiammate inflazionistiche. Ecco allora emergere che, a far tempo da febbraio di quest'anno, ovvero da dieci mesi, il tasso d'inflazione calcolato per il presente è sempre inferiore (persino troppo) alla soglia inviolabile del 2%, con la sola eccezione del mese di giugno che tuttavia si è chiuso con un modesto 3,04%.
La Bce, naturalmente, deve tenere conto del dato europeo, ma esso non è così diverso da quello italiano, soprattutto se si guarda al trend, la vera determinante di politiche monetarie razionali.
Appare allora chiaro che è immotivato un tasso di riferimento del 4,5%, perché comporta un tasso reale superiore al 3%, mentre l'inflazione non solo è rientrata ma pare stabilizzarsi su livelli decisamente modesti. Ciò causa naturalmente uno stato di sofferenza dell'economia molto grave, come numerosi centri di ricerca stanno documentando, con particolare riguardo alla Germania che è addirittura entrata in recessione, senza che vi sia un motivo di lotta all'inflazione sufficiente a giustificare tale sofferenza: proprio mentre sarebbe necessario tenere un comportamento opposto, vale a dire di sostegno con massicci investimenti (sfavoriti se non inibiti da interessi reali così elevati) alla riconversione ecologica. Non solo per ragioni legate all'ambiente, ma legata anche allo squilibrio geopolitico: le recenti vicende internazionali mostrano che non abbiamo imparato molto dallo shock petrolifero del 1974. Va inoltre considerato che tassi di interesse reali così elevati vanificano in parte i benefici degli investimenti legati al Pnrr, e soprattutto alla lunga divengono insostenibili per Paesi con un debito troppo elevato, come nel caso italiano, proprio mentre era ben avviato il processo di rientro del rapporto fra debito e Pil.
Dunque, l'appello alle autorità monetarie non è solo a ridurre quanto prima i tassi di interesse, ma anche ad assumere un atteggiamento razionale e non dogmatico nelle decisioni di politica monetaria, con la responsabilità di non causare deflazione, combattendo un'inflazione che ormai figura solo in un dato statistico oggettivamente privo di grandi significati, salvo che si disponga di informazioni riservate (ma ben fondate) sulle attese della dinamica dei prezzi futuri.
L'autonomia di un banchiere centrale è un presidio di legalità e financo di libertà in un sistema democratico, ma non deve mai degradarsi nell'autoreferenzialità
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