Sono soprattutto i numeri del ministero dell’Interno a spaventare Giorgia Meloni. Statistiche fredde e distaccate, che non si curano né della tragedia di tante vite disperate costrette a cercarsi un futuro in una catapecchia del mare, né delle ragioni per cui un governo che aveva promesso una decisa stretta al fenomeno migratorio è oggi obbligato a rincorrere. A ieri, infatti, i dati del Viminale contavano 51.636 sbarchi dal primo gennaio, ben oltre il doppio rispetto ai 20.634 dello stesso periodo del 2022, per non parlare del raffronto con il 2021 (furono 15.007). Di questi, la metà (25.937 al 1 giugno) sono arrivi dalla Tunisia, che ha ormai scavalcato la Libia ed è oggi il principale Paese di partenza verso l’Italia. D’altra parte, Sfax -città portuale tunisina - è a una notte di barca da Lampedusa e la crisi politico-economica che ha colpito l’intero Paese l’ha trasformata in uno dei principali snodi della cosiddetta rotta africana. Non solo chi arriva dalla parte occidentale del continente (vedi Costa d’Avorio), ma anche chi parte da oriente (Sudan o Ciad) sceglie -passando dall’Algeria-la nuova strada tunisina.
La crisi in cui versa il Paese, sull’orlo della bancarotta, è una delle principali ragioni di quanto sta accadendo. Non è un caso che nelle scorse settimane Meloni abbia parlato di «peggiore congiuntura immaginabile». Perché i numeri del 2023 non erano né previsti né prevedibili. E, soprattutto, perché siamo ancora a giugno (quando, questo dicono le statistiche, è agosto il mese davvero critico). Di qui, la scelta della premier di farsi ambasciatrice delle ragioni di Kais Saied, il presidente della Tunisia che da tempo chiede al Fondo monetario internazionale di sbloccare il prestito da 1,9 miliardi che potrebbe lenire la crisi tunisina. E che Fmi, ma anche Usa e un corposo pezzo di Ue, vorrebbero elargire solo dopo aver visto il promesso cambio di passo verso le riforme richieste a Tunisi (e magari rassicurazione sul fatto che Saied non entri davvero nell’area d’influenza di Russia e Cina).
Questa mattina, infatti, Meloni è attesa in Tunisia per una visita lampo, con l’obiettivo di portare avanti un’iniziativa diplomatica che riesca a conciliare le ragioni di Saied con quelle dei partner internazionali. E anche per dare un segnale a Washington e Bruxelles di quanto sia fondamentale sbloccare il prestito (magari con un’erogazione in due-tre tranche). D’altra parte, dai movimenti primari (verso l’Italia) dipendono anche quelli secondari (verso il resto dell’Ue), tanto che qualche giorno fa il tema è stato oggetto di confronto al summit di Chisinau, in Moldavia, in un trilaterale tra Meloni, l’olandese Mark Rutte e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen.
Anche per questo Meloni ha deciso di volare Tunisi, dopo ben tre missioni (due da sola, una insieme al ministro degli Esteri Antonio Tajani) del titolare dell’Interno Matteo Piantedosi. Che ha più volte elogiato l’impegno tunisino sul fronte immigrazione, sottolineando come la guardia costiera di Tunisi abbia effettuato in questi mesi oltre ventimila salvataggi. L’intento italiano, insomma, è quello di aprire un canale di dialogo.
Tanto che a Palazzo Chigi immaginano la missione di Meloni come un primo passo, a cui dovrà seguire un’altra visita in Tunisia con un delegazione più corposa e guidata da von der Leyen. Non è un caso che la premier sia decisa a trattare la questione anche con Olaf Scholz, atteso domani a Palazzo Chigi per «ricambiare» la visita a Berlino dello scorso febbraio.
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