La politica licenzia gli intellettuali. Dopo l'impegno vince la diffidenza

Dalla militanza ai "tecnici" fino al divorzio reciproco. Scrittori e filosofi non servono più (in tutti i sensi). Un rapporto da ripensare

La politica licenzia gli  intellettuali. Dopo l'impegno vince la diffidenza

Se il principale responsabile della difficile convivenza tra politica e intellettuali è il ceto politico, anche il mondo culturale non è esente da colpe. Si potrebbe sintetizzare con queste parole il libro di Giorgio Caravale Senza intellettuali (Laterza) che indaga «politica e cultura in Italia negli ultimi trent'anni». Gli ultimi decenni della storia italiana (ma il discorso, pur con alcune differenze, vale anche per le altre nazioni europee) hanno portato politici e intellettuali a ritenere di poter fare a meno gli uni degli altri.

Caravale si sofferma sull'evoluzione di questo legame a partire dalla crisi del modello gramsciano, passando per l'avvento di quello craxiano fino all'arrivo del centrodestra al governo e infine alla stagione populista. Nel ripercorrere episodi e aneddoti tra politici che cercano di sfruttare gli intellettuali salvo poi scaricarli alla prima occasione utile e intellettuali che sognano il salto in politica salvo poi rivelarsi inaffidabili, si arriva alle questioni di più stretta attualità come l'avvento dei tecnici in politica.

Dopo la stagione dei tecnici che ha avuto il suo apice con il governo Monti, «il rapporto tra tecnica e politica è oggi più debole che mai». Se «raramente gli economisti di oggi riconoscono dignità e autorevolezza alla classe politica con la quale collaborano», «i partiti politici, dal canto loro, hanno orizzonti temporali molto più brevi rispetto al passato. Consumano con grande rapidità i loro leader, figuriamoci i tecnici con cui collaborano».

Se economisti e giuristi hanno una visibilità che ancora li rende appetibili alla politica, oggi lo stesso non si può dire per storici, filosofi, letterati poiché, tramontata la stagione dell'intellettuale organico di matrice gramsciana, negli ultimi anni si è dissolto l'intreccio tra politica e cultura. Così, se i partiti hanno «fatto ricorso in più di un'occasione alla competenza degli esperti», non hanno però «avvertito la necessità di mettersi in ascolto delle riflessioni formulate da storici, filosofi, letterati». Tale distacco non è solo «responsabilità di una politica allergica alla riflessione intellettuale» ma è «anche frutto del progressivo declino della rilevanza dell'intellettuale nel dibattito pubblico». Ciò è avvenuto per una perdita di prestigio e pervasività dei media tradizionali ma anche per un'incapacità del ceto intellettuale di interpretare il comune sentire e per una serie di prese di posizione rivelatesi del tutto errate che hanno portato a una perdita di credibilità agli occhi dei cittadini (la Brexit e le elezioni americane del 2016 sono i casi più eclatanti). Così, «l'eccessiva frammentazione disciplinare, la crescente difficoltà di avanzamento di carriera, l'abitudine a circoscrivere sempre più l'oggetto della propria ricerca, la mancanza di uno sguardo lungo, hanno trasformato il mondo accademico in un universo incapace di dialogare con la società esterna e dunque privo di impatto sull'opinione pubblica».

Nonostante alcuni tentativi di avvicinamento, «i confini tra politica e cultura sono diventati steccati alti e solidi, quasi invalicabili, rendendo difficile il dialogo e, a maggior ragione, il movimento tra due universi». Nel momento in cui questi mondi paralleli sono venuti a contatto, i risultati non sono stati sempre dei migliori: «Gli intellettuali (umanisti) hanno oscillato dunque tra l'ambizione di entrare nelle grazie del leader mostrandosi più realisti del re e l'istinto di ritirarsi sdegnati dall'arena del dibattito politico. La politica, per conto suo, ha ondeggiato in modo altrettanto schizofrenico tra l'esibizione di un profondo disprezzo nei confronti degli intellettuali e la scelta opposta di consegnarsi mani e piedi all'intervento salvifico degli uomini e delle donne di cultura».

Da qui la conclusione di Caravale che individua in questo «doppio movimento schizofrenico», «il cortocircuito tra società civile e classe dirigente politica che ha segnato la storia italiana degli ultimi trent'anni». L'avvento dei social network ha avuto un impatto significativo tanto nella politica quanto nella visione del ruolo dell'intellettuale passando da una concezione verticale del dibattito pubblico a una nuova orizzontalità.

La distanza tra il mondo culturale e quello politico, può rappresentare «un'inedita opportunità affinché gli intellettuali ritrovino le condizioni per riflettere sui principali temi dell'agenda politica da posizioni di autonomia nei confronti della politica stessa». Al contrario, «occorre che la politica dismetta quella pregiudiziale antintellettuale che ha troppo spesso fatto propria».

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