Si può prendere sul serio la proposta di Veltroni di ridurre gli stipendi ai parlamentari? È noto che gli emolumenti e le pensioni dei parlamentari italiani sono i più generosi del mondo, ragione per cui tutte le ipotesi di tagli devono essere accolte come buoni propositi per la credibilità istituzionale. Ciò detto, però, ci si deve interrogare sulle ragioni che hanno portato a stipendi e pensioni così abnormi, e perché finora la loro anomalia non è stata mai messa in questione se non a parole.
La verità è che da trent'anni gli stipendi dei parlamentari hanno notevolmente contribuito al finanziamento dei partiti attraverso la pratica, instaurata dal Pci e proseguita perlopiù dai gruppi postcomunisti, della devoluzione di una consistente porzione al partito. Con lo stesso criterio le ricche pensioni (pardon «vitalizi») sono servite a sistemare finanziariamente i quadri dell'unico partito seriamente organizzato in Italia che gestisce il suo personale con carriere pianificate dagli enti locali al parlamento nazionale e di qui al pensionamento prematuro.
Questa è una parte della vera realtà del finanziamento della politica in Italia. Vero è che i parlamentari d'ogni colore hanno profittato dei tanti privilegi, peraltro estesi dal Parlamento nazionale alle regioni fino agli enti locali, rendendosi coscientemente complici della spirale al rialzo innescata dai partiti comunisti e postcomunisti, i quali più degli altri hanno sempre avuto la necessità di disporre di un vasto esercito di professionisti della politica.
Ecco perché la proposta di Veltroni non può essere considerata seriamente. A me pare che sia la storia del passato piuttosto che i buoni propositi per l'avvenire che faccia testo su una materia come l'aumento spropositato dei costi della politica sui quali si è sempre verificato in Parlamento l'unanimità, l'omertà e la clandestinità dei comportamenti convergenti di tutti i gruppi politici, forse con l'eccezione dei radicali.
Ma, a ben riflettere, il capitolo degli stipendi non è il maggiore, se pure il più spettacolare, del voluminoso libro del finanziamento che gli italiani sono forzosamente costretti a versare alla politica. Tra gli altri capitoli di «Soldi & partiti», il primo posto spetta al falso «rimborso elettorale», che in realtà è un vero e proprio finanziamento pubblico (per tutte le liste sopra l'1%), aumentato a dismisura da quando la maggioranza degli italiani ne ha decretato con il referendum l'abrogazione.
Vi sono poi una serie di altre voci che gravano sulle tasche del contribuente: il finanziamento dei giornali di partito e di quelli non di partito; il funzionamento di enti amministrativi inutili a cominciare dalle province e da molte comunità montane; le spese amministrative per i sottopolitici che gestiscono le unità sanitarie locali; le spese faraoniche di rappresentanza soprattutto delle regioni; e la miriade di consulenze assegnate ai clientes dei partiti nelle amministrazioni pubbliche di ogni ordine e grado, e chissà quante altre spese sommerse nelle pieghe dei bilanci pubblici di cui è anche difficile immaginare l'esistenza.
Ecco perché fanno sorridere le proposte dell'ultima ora elettorale. Mi chiedo tuttavia se esiste un solo candidato di un qualsiasi gruppo che abbia il coraggio di dichiarare, non per il futuro ma per il passato, «ho sbagliato a votare così e così su una spesa per la politica». Si dirà che la politica costa e bisogna finanziarla, ed è vero. Chi scrive da tempo propone di passare dal sistema dei finanziamenti pubblici indifferenziati alle contribuzioni private integralmente defiscalizzate per cui ciascuna persona fisica o giuridica può versare senza aggravi al candidato o alla forza che preferisce il suo obolo entro soglie che assicurino l'eguaglianza dei punti di partenza.
È un'utopia? Non credo. Si tratta di un metodo da sperimentare come risposta a chi ritiene che con la Casta non si può andare avanti. Il punto è che oggi si mette sulle spalle del potere pubblico l'enorme fardello del professionismo politico che si autoalimenta all'infinito, soprattutto perché è stata recisa la responsabilità del rapporto diretto tra l'esborso finanziario del cittadino e la destinazione del suo contributo.
Massimo Teodori
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