Il voto del 25 settembre ha cambiato ancora una volta la geografia politica dello Stivale. Cambiano i rapporti di forza nel centrodestra, con il partito di Giorgia Meloni che al Nord e al Centro ruba la scena alla Lega, confinandola nel raggio d'azione del vecchio Carroccio. E cambia il voto nelle regioni meridionali, dove Fratelli d'Italia e il centrodestra in generale scontano la concorrenza del Movimento 5 Stelle che diventa «partito del Sud» anche (e soprattutto) grazie al reddito di cittadinanza.
Anche la «zona rossa», storica roccaforte della sinistra, spiega al Giornale il direttore dell'Istituto Cattaneo, Salvatore Vassallo, «si va restringendo da alcuni anni alla dorsale ad alta densità abitativa dell'Emilia-Romagna e della Toscana, alle province settentrionali di Marche e Umbria, a Genova e alla Liguria orientale». I dati evidenziano un calo, seppur minimo, in Toscana rispetto alle scorse politiche. Ma va considerato anche il fatto che i Dem dal 2018 hanno subito due scissioni: prima con Renzi e poi con la nascita del polo centrista dopo il naufragio dell'accordo elettorale con Calenda. Insomma, il Pd resiste, anche se un po' a fatica.
E la conclusione degli esperti è che anche queste regioni ormai sono diventate politicamente «contendibili».
Il partito di Giuseppe Conte, invece, si afferma sempre di più al Sud, tanto che dal 2014 gli analisti parlano di «meridionalizzazione» del Movimento. Ma se nel 2018 era stata certificata una corrispondenza tra voto grillino e zone con alti tassi di disoccupazione, oggi le percentuali favorevoli al M5s si registrano nelle aree dove c'è una quota maggiore di percettori di reddito di cittadinanza. A confermarlo è anche l'Istituto Cattaneo in uno studio inedito che parla di «relazione molto forte». Insomma, la povertà non è stata sconfitta, al netto degli annunci dai balconi. Ma almeno attorno al disagio e alla mancanza di opportunità i grillini hanno costruito un solido bacino elettorale.
Ad emergere, nelle ultime politiche, è anche la frattura tra l'elettorato dei piccoli comuni e quello delle metropoli. Una dinamica che abbiamo imparato a conoscere già dai tempi della sfida Trump-Clinton: le aree rurali in mano ai repubblicani e le grandi città appannaggio dei democratici. «Anche in Italia è sempre stato così dai tempi della Democrazia cristiana», ci spiega il direttore del centro di ricerca bolognese.
Ma nelle scorse elezioni il dato è apparso in modo ancora più distinto, con il centrodestra che nei comuni fino a 15mila abitanti ha ottenuto in media un vantaggio di 30 punti percentuali rispetto alla coalizione di centrosinistra. Nei grandi centri invece, sono il Pd e gli alleati ad affermarsi su Fdi, Lega e Forza Italia. Dietro ci sono innanzitutto fattori di carattere culturale: «Chi risiede nei comuni minori generalmente ha una mentalità più conservatrice e tradizionalista, mentre chi vive nelle metropoli di solito ha tendenze progressiste». Non solo. Evidentemente a contare è anche il tessuto sociale: chi vive nelle realtà più piccole, commercianti e piccoli imprenditori, che spesso devono fare i conti più di altri con le dinamiche della crisi, ha trovato risposte più convincenti nel centrodestra. Nelle grandi città, dove abitano anche moltissimi studenti, professionisti e impiegati nella pubblica amministrazione, prevalgono invece altre logiche.
Un distinguo che si riflette anche nelle dinamiche interne ai centri urbani, tra le Ztl e le periferie degradate.
«Qui - spiega Vassallo - l'equilibrio politico si è praticamente invertito nell'ultimo decennio, quando anche a livello internazionale c'è stato uno spostamento significativo del voto, soprattutto tra operai e disoccupati, verso nuove forze anti-establishment o verso partiti di centrodestra».
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