Con Vladimir Putin ogni giorno ha la sua pena. Una volta minaccia (o fa minacciare dal suo eterno vice, il «poliziotto cattivo» Dmitry Medvedev) il possibile impiego delle atomiche tattiche sul suolo ucraino, ricordando che una bombetta in grado di cancellare ogni forma di vita per venti chilometri quadrati gettata sul campo di battaglia altro non è che un capitolo della dottrina militare russa; la volta dopo assicura al mondo che a Mosca non sono impazziti, che l'arsenale nucleare russo serve solo per deterrenza; e la volta dopo ancora (ieri, in videoconferenza con gli «alleati» della Csi riuniti a Bishkek in Kyrgyzstan) riaccende il segnale d'allarme osservando, come se niente fosse, di non escludere a priori l'eventualità di «tirare per primo». Questa ipotesi, naturalmente, viene venduta allo stupefatto pubblico mondiale come una mossa copiata di sana pianta dal «partner americano» (così lo ha chiamato, perfidamente) e mirante a «disarmare i nemici» e a «cancellare dalla faccia della terra chiunque pensi di attaccarci».
Bullismo mediatico, verrebbe da dire. Putin sa perfettamente che un primo colpo nucleare di grande o piccola entità lanciato contro l'Ucraina o qualsiasi Paese della Nato (non solo gli Stati Uniti) implicherebbe un immediato cambio di scenario militare, irreversibile e rovinoso per la Russia. Un'atomica usata in Ucraina significherebbe (oltre alla fine dell'alleanza con la Cina, che non intende farsi tirare in un conflitto mondiale per far piacere a Putin) scatenare la promessa devastante reazione Nato contro l'armata russa d'invasione e la flotta del Mar Nero, mentre un ipotetico «attacco preventivo» (e di che cosa? Nessuno vuole attaccare la Russia) contro un obiettivo atlantico implicherebbe una sicura risposta immediata: ossia l'incenerimento di città russe come Mosca o San Pietroburgo. Follia pura, e siccome Putin è megalomane ma non stupido, non lo farà mai. Certamente, però, sa che ogni volta che agita lo spauracchio dell'Armageddon qualcosa ottiene in termini di paura seminata in Occidente: ed è per questo che, anche ieri, ha parlato come un terrorista.
Nel suo intervento a ruota libera, Putin ha fatto però anche un paio di ammissioni importanti, oltre a suonare il disco ormai consumato della propaganda contro l'Occidente cattivo che vuole soffocare «con ogni mezzo» le legittime aspirazioni russe al perduto ruolo di superpotenza. La frase più significativa è stata «alla fine, raggiungere un accordo sull'Ucraina è inevitabile». Frase che, però, va interpretata. Non significa la disponibilità russa a negoziati seri, bensì la pretesa di far passare per disponibilità una indisponibilità assoluta nei confronti delle richieste del Paese che Putin ha fatto invadere. Non a caso fonti russe anticipano l'invio di massicci rinforzi nel Donbass: l'obiettivo massimo è quello di uno sfondamento già quest'inverno, quello minimo di lanciare una nuova offensiva nel prossimo marzo. Quindi, zero concessioni a Kiev: non solo nessun ritiro di truppe russe dall'Ucraina, ma la pretesa di «discutere partendo dalla situazione attuale sul terreno». Ovvero, quello che è russo non si tocca (inclusa la pretesa assurda che sia Russia anche quella parte delle province ucraine di Donetsk, Kherson e Zaporizhzhia che l'esercito russo non controlla), mentre di quello che è ucraino si può parlare ma alle nostre condizioni: il solito, inaccettabile ricatto.
Chiacchiere inutili, anche perché Putin ha dovuto ammettere il persistere gravi difficoltà nei rifornimenti ai soldati in Ucraina, mentre non si nega perfino il rischio di attacchi nemici contro la Crimea annessa nel 2014.
Permane poi la minaccia costante di attentati su suolo russo: ieri un misterioso incendio ha bruciato 7mila metri quadrati in un grande magazzino presso Mosca. Si è parlato di un cortocircuito, ma i servizi di emergenza sospettano un rogo doloso. Tra i possibili autori la criminalità comune, ma anche sabotatori ucraini oppure oppositori russi alla «guerra di Putin».
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