Se è stato finanziato illecitamente lo stabilirà la magistratura, ma nel frattempo Matteo Renzi viene lapidato con le stesse carte del fascicolo dell'inchiesta Open, con una meticolosità senza precedenti e, spesso, con argomenti che nemmeno sono oggetto dell'indagine della procura fiorentina che ipotizza come la fondazione Open fosse stata utilizzata illecitamente per finanziare la corrente dell'ex premier.
È il caso delle dichiarazioni dei «big» del Pd chiamati dai pm a raccontare che cosa sapessero di Open, i cui verbali sono stati riportati ieri dal Corriere della Sera. Dall'ex segretario Pier Luigi Bersani all'ex tesoriere Antonio Misiani, passando per Rosy Bindi, Maurizio Martina e Matteo Orfini, più che notizie di reato finiscono nei faldoni della procura di Firenze accuse politiche, come nel caso di Bersani che mette nero su bianco come la componente renziana fosse interessata, nella sua scalata al Partito democratico, a «tagliarne le radici della sinistra storica, politica e sindacale». I volti noti dem, spesso ostili all'ex sindaco di Firenze, alzano le mani e scuotono la testa quando si tratta di dichiarare se fossero a conoscenza di finanziamenti diretti a Open da parte di parlamentari fedeli a Renzi, ma sono piuttosto loquaci nel criticarne la linea politica come appunto Bersani o nel giustificare il crollo dei finanziamenti privati al Pd con gli scandali che avevano travolto il partito, da Lusi a Mafia Capitale. Ma dal fascicolo dell'inchiesta toscana saltano fuori anche i conti correnti, che finiscono passati al setaccio sul Fatto quotidiano, un destino che non era toccato in sorte nemmeno a Silvio Berlusconi. I movimenti avere di Renzi tra 2019 e 2020 vengono snocciolati uno dopo l'altro e messi sotto la lente d'ingrandimento, dai compensi per gli speech agli incarichi retribuiti con la Stanford University, fino al già noto bonifico da 20mila euro ricevuto da Piero Pelù a febbraio 2020 e relativo a una conciliazione tra il cantante e Renzi per far ritirare una querela per diffamazione presentata dal politico dopo che, nel 2014, Pelù dal palco del concertone del Primo maggio aveva definito l'allora premier «non eletto» e vicino alla massoneria.
Eppure, come tra l'altro premette lo stesso quotidiano nel pezzo sulla lista movimenti renziana, si tratta di soldi incassati legittimamente, e che soprattutto non sono affatto oggetto dell'indagine fiorentina. Facile insomma capire la frustrazione del leader di Italia viva, quando ringhia contro la «reiterata violazione di ogni forma di privacy», come appunto nel caso del «segreto bancario che vale per tutti tranne che per me», e annuncia «il proprio impegno per ottenere giustizia sia in sede civile sia penale». Ma a scandalizzarsi per la gogna mediatica, oltre al diretto interessato, sono quasi solo voci interne allo stesso partito di Renzi. Come Michele Anzaldi, segretario della commissione di vigilanza Rai, che attacca la «gravissima deriva» per cui «un giornale pubblica l'estratto conto personale di un senatore» mentre «in Italia non si riesce a sapere quanto guadagnano i giornalisti esterni invitati nei talk Rai» e «la tv pubblica si rifiuta di fare trasparenza su opinionisti pagati con soldi dei cittadini».
Duro anche il vicepresidente di Iv alla Camera Marco Di Maio, che ricorda come pubblicare quei dati bancari sia «contro la Costituzione». E nel Pd? Ad alzare la voce è solo il renziano Andrea Marcucci, per il quale la deriva mediatica sull'inchiesta Open è «un passo in più verso l'abisso».
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