Giorno dopo giorno, ora dopo ora, con i media che rigurgitano delle immagini e dei suoni della violenza brutale che il dittatore di Mosca sta imponendo qui in Europa a 40 milioni di uomini, donne e bambini, ci insegue sempre più assillante l'interrogativo: «E adesso cosa facciamo? Come se ne esce?». So che disturba la nostra consolidata sensibilità di buoni cittadini a cui tutto si può chiedere fuorché di trovarsi coinvolti in qualcosa che somigli a un conflitto vero. Ma temo che la prima risposta alla domanda «come se ne esce?» sia proprio: prendendo atto che non se ne esce. Che non possiamo illuderci di starne fuori, di pretendere che non ci riguardi: perfino la neutralissima Svizzera l'ha capito, e si è schierata. Detto brutalmente: è verosimile che Vladimir Putin, infilatosi volontariamente in un tunnel da cui non uscirà più, voglia coinvolgerci in una guerra per tenere unito il fronte interno che rischia di sfuggirgli di mano; e se questo accadrà, non se ne esce dicendo «noi non la faremo». Perché comunque ce la farebbe lui, cercando di imporre a noi ciò che sta imponendo agli ucraini: i quali combattono perché sanno che il giorno dopo la resa comincia la schiavitù. La stessa che attenderebbe noi italiani ed europei occidentali. Se l'élite militare russa accetterà di estendere il conflitto ucraino fino a sfidare la Nato nella speranza di salvare il criminale che la guida e la arricchisce, diventerà reale ciò che disse una volta con esplicita ineleganza un generale cinese: la pace va benissimo, ma se uno vuole pisciarti in testa, tu cosa fai? Purtroppo, noi ci stiamo avvicinando rapidamente a questo punto. Non dobbiamo trasformarci in guerrieri domani mattina, ma sarà meglio che ci sbrighiamo a capire che la Russia potrebbe metterci in questa situazione prima di quanto immaginiamo. In guerra, del resto, ci siamo già: gli ucraini si difendono con le nostre armi, mentre i russi già subiscono gli effetti delle nostre sanzioni, con i prezzi dei beni di prima necessità che s'impennano, i bancomat che si svuotano, le code dei pensionati angosciati davanti alle farmacie che stanno esaurendo le forniture occidentali. Come ha ben notato il Wall Street Journal, di fronte alla brutale determinazione di un Putin in piena «fuga in avanti» le opzioni a disposizione dell'Occidente si vanno rapidamente riducendo: abbiamo fatto e stiamo facendo il possibile, il seguito dipenderà dalle sue scelte, che a loro volta determineranno le nostre.
Cosa succederà domani? Sgombriamo il campo dalle illusioni: la diplomazia è impotente perché Mosca non è disponibile ad alcun compromesso. L'Onu è un parolificio sterile, si vota una condanna e finisce lì. Le telefonate dei vari Macron lasciano regolarmente il tempo che trovano, e nemmeno dai negoziati in Bielorussia arriverà nulla di buono. Ieri il Cremlino ha confermato che «in ogni caso i nostri obiettivi verranno conseguiti»: ovvero, l'unico esito che accoglieranno sarà la resa totale dell'Ucraina e l'installazione a Kiev di un loro proconsole, domani la prosecuzione sotto ricatto nucleare della già annunciata campagna di riconquista ai danni degli ex Paesi satellite dell'Urss nell'Europa orientale, dopodomani la pretesa di «finlandizzare» mezza Scandinavia per «garantirsi la sicurezza» a scapito della nostra. E via così, fino ad arrivare ai nostri confini sempre minacciando l'apocalisse.
Cosa possiamo fare dunque noi italiani, noi europei, oltre a sperare che a questo punto qualche generale russo decida di liberarsi (e liberarci) di un Putin fuori controllo? Mostrarci uniti sui valori come stiamo facendo adesso, difendere la pace preparando una guerra difensiva a livello Nato, senza scadere nell'odio indiscriminato verso i russi e sperando ovviamente che la nostra consapevole determinazione - e certo non la miope codardia dell'eterna Italietta del «Franza o Spagna purché se magna» - ci permetta di non subire un'aggressione.
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