Ci ferisce e ci spaventa due volte e non perché è una frase pronunciata da un magistrato, ma perché nessun altro magistrato ha preso le distanze e l'ha sottoposta a quarantena. E stiamo ancora aspettando che passato lo stordimento, si possa davvero riflettere sull'enormità che Piercamillo Davigo, attuale componente del Csm, ha pronunciato alla trasmissione Piazza Pulita calpestando in un colpo solo Cesare Beccaria, i fratelli Verri, Piero Calamandrei, Francesco Carnelluti, quella preziosa e irrinunciabile biblioteca che ogni uomo di legge si porta come bagaglio insieme alla malinconia del decidere e del punire.
C'era da spalancare gli occhi e persino gli altri sensi hanno vacillato di fronte a quel nuovo brocardo, una sintesi che Davigo ha aggiunto al suo codice che è contrario al ragionevole dubbio, un diritto che diventa foresta, stato di natura: «L'errore italiano è dire aspettiamo le sentenze». In pratica la galera, ceppi e schiavettoni, per tutti gli imputati, il salto immediato dall'indagine alle inferriate. E anche le motivazioni di questa sua ultima massima, («Se invito a casa il mio vicino di casa e lo vedo uscire con la mia argenteria nelle tasche, non devo aspettare la sentenza della Cassazione per non invitarlo di nuovo»), non sono altro che scorciatoie, le vecchie logore battute a cui ricorrono i comici infelici quando non riescono più a strappare un applauso. Si può ridurre davvero la giustizia, e le sue categorie del castigo, a pensieri smozzicati dietro una telecamera tra il raglio di un ospite e uno spot?
Non è la prima volta che Davigo partecipa a delle trasmissioni televisive e già questo è lontano dall'idea che da secoli si ha del giudice, del magistrato. Davigo non è stato solo un protagonista del pool Mani Pulite, ma è presidente di una sezione della Corte di Cassazione, è membro, come ricordato, del Csm, l'organo di autodisciplina dei magistrati, quel Csm la cui immagine è sempre più compromessa dopo l'inchiesta su Luca Palamara, altro ex componente e già presidente dell'Anm. Sarebbe stato interessante vedere Davigo «indagare» la malattia delle «correnti», incidere il suo bisturi su quel corpo, mai tanto infetto, che è la magistratura, ricostruire le intercettazioni, la geografia e gli scambi fra toghe, calcolare l'indice di contagio fra procure. È la casa della giustizia che sta andando a fuoco e le fiamme sono partite da dentro. E invece, quando gli è stato chiesto un parere, si è scoperto, e la sorpresa è stata tanta, esistere un Davigo garantista che ha diviso l'umanità dei magistrati in «per bene» e in «per male» e che il compito è sempre quello di distinguere. E non ha voluto commentare i casi singoli dei magistrati coinvolti «perché altrimenti mi ricusano». Ha rimandato il giudizio più in là, lui che velocemente, accorcerebbe qualsiasi processo alla condanna.
Insomma, ha trovato parole assolutorie e piene di comprensione per i pm perché «la sezione disciplinare non può procedere d'ufficio. La procura generale sta lavorando su un immenso materiale. Quando arriveranno richieste giudicheremo». Era un altro rispetto al Davigo che ha scolpito aforismi come questo: «Non esistono innocenti ma solo colpevoli non ancora scoperti».
Per i suoi colleghi ha anche ripristinato il principio di innocenza che per gli altri imputati è tuttavia un gargarismo perché «è un fatto interno al processo, non c'entra nulla con i rapporti sociali e politici». E non ha parlato di galera quel luogo dove «ci vanno in pochi e ci stanno poco». Nessuno era mai riuscito in una sola sera a distruggere la civiltà giuridica per gli imputati e a ripristinarla per i magistrati.
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