"Colpire Parigi la sera". Ma per i giudici italiani l'imam era innocente

Ayachi predicava nel quartiere belga dei jihadisti del 13 novembre. Arrestato a Bari nel 2008, invitava a sterminare il "popolo". Scagionato

"Colpire Parigi la sera". Ma per i giudici italiani l'imam era innocente

«A Parigi...colpiamo lì...la sera...quando saranno tante persone». A distanza di sette anni, dopo la notte di terrore vissuta in Francia, mettono i brividi e suonano ancora più inquietanti le parole intercettate nel corso di un'inchiesta della Procura di Bari. Che già nel 2008 portò alla luce l'esistenza di un asse del terrore nel cuore dell'Europa. Al centro di quell'indagine c'erano Bassam Ayachi, di origine siriana, all'epoca 63 anni e responsabile di un centro religioso islamico di Molenbeek, fucina per combattenti e kamikaze provenienti dall'area di Bruxelles, e Raphael Gendron, 34 anni, ingegnere informatico francese convertito all'Islam. Entrambi furono arrestati l'11 novembre del 2008, e la loro vicenda giudiziaria rimane a dir poco controversa: condanna in primo grado, assoluzione in appello, annullamento da parte della Cassazione e nuova assoluzione. Questa volta definitiva. Risultato: sono tornati tutti e due in libertà: Gendron sarebbe morto cinque anni dopo combattendo in Siria, dove si troverebbe anche l'ex imam fotografato mentre imbraccia il kalashnikov.La storia comincia al porto di Bari. Ayachi e Gendron viaggiano su un camper, ma vengono bloccati dalla polizia di frontiera subito dopo lo sbarco da un traghetto proveniente dalla Grecia. In un doppiofondo ci sono cinque migranti, tre siriani e due palestinesi. L'operazione pare conclusa, sembra uno dei numerosi interventi di contrasto al traffico di clandestini. Ma un agente nota la presenza di materiale sospetto, tra cui sei pen-drive e alcuni dvd con filmati di propaganda terroristica, compresi il testamento di un kamikaze e un altro dal titolo emblematico: «Torture». L'imam e l'ingegnere finiscono in cella. A questo punto scatta l'inchiesta e inizia una lunga attività di intercettazione in carcere.In una conversazione del 14 dicembre del 2008 Gendron dice che «bisogna colpire bene...» mentre Ayachi precisa: «Colpire il popolo». Sempre l'imam sottolinea l'importanza dell'indottrinamento e dichiara: «Sono sicuro che vinceremo, ma serve spiegare bene»; poi parla del progetto di un attentato: «Non hai bisogno che ti dica che significa avere un aereo francese».

L'ingegnere gli risponde che «bisogna colpire gli inglesi» e «cambiare posto» mentre Ayachi simula il fischio di un jet e afferma lapidario: «A Parigi». «Colpiremo...lo faremo...saremo dappertutto...colpirò De Gaulle», mormora l'ingegnere riferendosi all'aeroporto francese; «colpiamo lì», si mostra d'accordo l'imam che invita a entrare in azione «la sera...quando saranno tante persone». Ma non è tutto. In una conversazione del 6 dicembre 2008, i due discutono dell'acquisto e utilizzo di esplosivo. «Possiamo esplodere una volta che l'abbiamo portato, ma bisognerà renderla imprendibile...», dichiara Ayachi mentre Gendron annuncia l'intenzione di «confezionare una superbomba». Le intercettazioni proseguono, la polizia raccoglie ulteriori tasselli in un mosaico investigativo che si fa sempre più preoccupante. Il 25 gennaio del 2009 l'ingegnere parla ancora di «un aereo francese» e l'imam dichiara: «Li stermineremo, devo andare a sterminarli...colpire nel mondo intero». Gli indagati si difendono e respingono le accuse. Ma grazie anche ai riscontri a livello internazionale la Procura riesce a ricostruire l'esistenza di una cellula terroristica vicina ad Al Qaida con ramificazioni in Francia, Belgio, Siria, Irak e Afghanistan. Del resto l'imam non nasconde le proprie convinzioni e dice tranquillamente di aver chiamato il figlio Mohammed Atta come uno degli attentatori dell'11 settembre. Perché per me lui è un eroe», racconta alla polizia.

La vicenda approda in un'aula giudiziaria: il 4 giugno del 2011 Ayachi e Gendron vengono condannati a otto anni di reclusione dalla Corte d'Assise di Bari, ma un anno dopo in appello scatta l'assoluzione e gli imputati tornano in libertà. Il caso finisce in Cassazione, che annulla la precedente decisione e ordina un nuovo processo. Ma il verdetto non cambia.

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